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Adolescenti, oggi che cosa rappresenta per noi l’ignoto, l’inesplorato?

Silvia Rossetti

Nella cartografia antica in corrispondenza delle zone ancora inesplorate venivano rappresentate foreste intricate e fiere mitologiche. Quei luoghi ignoti erano spesso contrassegnati sulle mappe da scritte minacciose: “hic sunt leones”, o “hic sunt dracones” (qui sono i leoni, qui sono i draghi).

Naturalmente la metafora vuole essere una provocazione, ma è utile a muovere riflessioni.
La domanda di fondo è: oggi che cosa rappresenta per noi l’ignoto, l’inesplorato? Una sfida personale o qualcosa da delegare alle intelligenze artificiali?

La questione riguarda soprattutto i nostri giovani che più di chiunque altro dovrebbero essere animati dalla scintilla della curiosità e dal vigore che necessita alla ricerca. Non è una domanda di poco conto perché la percezione dell’ignoto è uno stimolo fondamentale nel processo dialettico che conduce alla conoscenza.

L’“uomo folle”, diceva il filosofo Friedrich Nietzsche nella seconda metà dell’Ottocento, ha avvertito la “vertigine della ragione”: sa dell’esistenza di quello spazio oltre il fondamento, sa di quel Nulla oltre l’Essere, sa di avere a che fare con un momento tragico che scopre l’infondatezza del Tutto. La sua follia si traduce quindi in ansia di sapere, ricerca, rischio: si trasforma in desiderio e quindi finalmente in conoscenza.

Che fine hanno fatto, dunque, la vertigine della ragione e il desiderio di conoscenza?
Abbiamo chiesto alle “macchine” di fornirci sapere, abbiamo delegato loro nella ricerca. Le macchine hanno risposto “potentemente” e ci hanno quindi sommerso di “dati”. Sotto quella poderosa slavina algoritmica dovremo quindi scavare a mani nude per riportare alla luce qualsiasi tipo di vertigine e desiderio.

La scuola nel frattempo ha cercato di mantenere il punto, continuando a puntare sull’intelligenza umana e affidandosi alla certezza della tradizione. Lo ha fatto però in maniera “troppo” esclusiva, sottovalutando a lungo la portata della rivoluzione digitale in atto. Tra la possibilità di essere divorati dal Golem tecnologico e l’alternativa dell’astinenza digitale, in ritardo tra le nebbie è stata scorta la terza “via”: quella “collaborativa”, dove l’intelligenza umana delega a quella artificiale prevalentemente la raccolta dei dati, preservandosi il compito di leggerli, interpretarli e interconnetterli. In questo ritardo, poi, la scuola non ha compreso che il tempo della lezione nozionistica era ormai definitivamente tramontato.

Ci si è poi fidati troppo degli ottimismi del secolo scorso, di quel cosiddetto “effetto Flynn” che descriveva nell’epoca post-industriale un incremento delle capacità cognitive dell’essere umano. Flynn, infatti, è stato smentito recentissimamente da due ricercatori norvegesi, Bernt Bratsberg e Oleg Rogeberg: il presunto miglioramento dell’intelletto umano pare stia subendo una preoccupante inversione di tendenza.

Le cause? La pervasività della tecnologia e l’influenza che essa esercita nei confronti dello sviluppo dell’attenzione e della concentrazione nei bambini. La dipendenza passiva da dispositivi, programmi e servizi che risolvono al posto nostro qualsiasi problema decisionale o mnemonico in poche frazioni di secondo. La pioggia di notifiche, messaggi, immagini, informazioni e suoni cui siamo costantemente sottoposti, che oltre a innescare sensazioni di stress impoveriscono di fatto le nostre capacità di giudizio e di decisione. Complici di questo perverso meccanismo: il ritmo frenetico delle nostre giornate e l’attitudine sempre più marcata al multitasking.

Ecco dunque le insidie, autentici “leones” nelle carte geografiche dell’esistenza contemporanea.

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