“Sono disperata, mio figlio da due giorni è in fila alla frontiera tra Ucraina e Polonia per cercare di tornare a casa”, mi dice una distinta signora ucraina che abita nel mio stesso palazzo, a Roma, e che incontro per caso mentre scendo a comprare i giornali. “Stia tranquilla, deve solo avere pazienza. Pare che la fila di rifugiati alla frontiera abbia già raggiunto 60 chilometri. Ci vuole un po’ di tempo”, le rispondo, cercando di sollevarla, per quel che è possibile.
“Grave pericolo”. Non ho riferito alla signora ciò che ho appena saputo. Stamattina, il capo dell’Ufficio della difesa nazionale polacca Paweł Soloch ha espresso preoccupazione per il fatto che la Russia avrebbe potuto attaccare l’Ucraina dalla Bielorussia proprio lungo la sua frontiera con la Polonia, cercando di tagliare la strada ai profughi. “Tale azione avrebbe messo in grave pericolo centinaia di migliaia di persone che adesso aspettano in lunghissime file per trovare riparo dalla guerra sul territorio polacco. Sarebbe stato un genocidio barbaro e inimmaginabile”, ha dichiarato Soloch, senza fare riferimento diretto ai tre missili che domenica sono stati sparati dalla Bielorussia verso i magazzini militari a soli 15 chilometri dal confine tra Polonia e Ucraina.
Posti di blocco e controlli. La fila più lunga di profughi si snoda lungo la strada che collega Leopoli con il valico di Medyka, a pochi chilometri dalla città polacca di Przemyśl. È composta da donne, anziani e bambini, poiché gli uomini tra i 18 e i 60 anni devono restare in Ucraina per difendere il Paese. A causa dei numerosi posti di blocco ucraini, il passaggio fino al confine non è veloce, e non lo sono nemmeno i controlli alla frontiera. È vero che la Polonia accetta tutti i rifugiati, anche quelli senza documenti, o con passaporto scaduto, addirittura anche in compagnia di cani e gatti, ma – spiegano le autorità – tutti devono essere sottoposti ai controlli. I profughi privi di documenti, una volta al sicuro, avranno 15 giorni per sbrigare le pratiche burocratiche.
Una vita nello zaino. Tuttavia, numerose persone, soprattutto le mamme con bambini piccoli, non pensano di trattenersi in Polonia a lungo. Spiegano ai loro figli, e forse ci credono anche loro, che è solo una gita di qualche giorno. “Fra una settimana o al massimo due torneremo a casa nostra”, dicono, grate per l’accoglienza ricevuta, e quasi intimidite dall’ospitalità dei polacchi. In Polonia, dove secondo le stime lavorano già da tempo un milione di migranti ucraini, dall’inizio dell’invasione russa sono arrivati già oltre 200mila profughi. Quasi tutti solo con uno zaino o una piccola valigia, senza neppure lo stretto necessario. Altri arrivano coi treni da Leopoli, stripati fino all’impossibile, ma neanch’essi riescono a portare con sé dei bagagli capaci di contenere tutta la loro vita passata.
Solidarietà diffusa. Gli operatori di telefonia mobile polacchi offrono connessioni a prezzo ridotto o addirittura gratuite con l’Ucraina. Non si contano più le iniziative di raccolta dei beni di prima necessità e dei fondi destinati al sostegno dei profughi, sia governative sia organizzate dalla Caritas, lanciate dalle diocesi e dalle parrocchie, e anche da varie organizzazioni della società civile. Nessuno, per il momento si chiede quanto potrà durare la guerra e nessuno ancora si preoccupa per quanto tempo sarà necessario aiutare le vittime dell’aggressione russa.
Difendere il proprio Paese. Ai valichi di frontiera polacchi, oltre alle migliaia di profughi e rifugiati, c’è anche un’altra fila di ucraini. Quasi tutti sono uomini pronti a tornare nel loro Paese per battersi e per difenderlo dall’aggressore. Molti sono autisti che finora hanno percorso migliaia di chilometri di strade europee lavorando per varie ditte di trasporti, ma anche studenti e professionisti, da anni stabiliti in Polonia, in Germania o in Gran Bretagna. “Dobbiamo farlo, dobbiamo tornare perché è il nostro Paese. Non abbiamo un’altra Ucraina. E l’Ucraina deve essere un paese libero!”, dicono chiedendo di non scattare loro delle foto che avrebbero potuto fornire al nemico un’indicazione pericolosa per la loro stessa vita.