DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.
I discepoli sono scoraggiati, sfiduciati, sono provati dagli ultimi discorsi di Gesù, parole che parlano di sofferenza, di croce, di morte. Questo perché la sofferenza, la croce, la morte sono segno di fallimento e, il loro Messia, non può essere un fallito!
Gesù, allora, «prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare». Sale sul Tabor perché i suoi discepoli possano vedere quanto stanno vivendo in una prospettiva diversa.
E’ la stessa cosa che Dio fa con Abram, lo leggiamo nella prima lettura: «In quei giorni Dio condusse fuori Abram e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle” e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”». Ad Abram che non riesce a vedere nella sua vita il segno concreto della benedizione divina, Dio chiede di alzare lo sguardo, puntarlo verso il cielo perché l’orizzonte della sua esistenza non rimanga ancorato sulla terra.
Abram si lascia “condurre fuori” da Dio, condurre fuori dalla propria casa, cioè dalle proprie sicurezze, dalle proprie certezze, per dare fiducia a Lui solo, alla sua assicurazione di vita e di fecondità.
E’ un po’ morire al nostro piccolo io per sperimentare il Dio che matura in noi. E poi dargli credito, lasciarlo agire, lasciarsi dilatare e compiere. E infatti la scelta fondamentale di Abram consiste nella fiducia che pone nel Dio che lo benedice, che lo ama, che provvede a lui.
E il Signore si spinge ancora oltre: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate». E la cosa più incredibile è che, tutto questo, Dio non si limita a prometterlo ma vi si impegna con un contratto vero e proprio.
E se con Abramo l’alleanza è sancita da un rituale ben preciso – animali uccisi e divisi in due, un braciere fumante e una fiaccola ardente che passano in mezzo ad essi – sul Tabor essa è resa irrevocabile dal dono di un Figlio: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Ma come mantenere sempre questo sguardo che va oltre, che sale in alto? Custodendo e non lasciandoci mai “rubare” la nostra intimità con Dio.
Infatti, nel Vangelo, leggiamo di Gesù che proprio «Mentre pregava il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante», come ad indicare che solo in un profondo cammino di interiorità, solo nutrendo e rafforzando costantemente la nostra relazione con Dio possiamo scoprire la bellezza di appartenergli.
Anche San Paolo lo ribadisce: «La nostra cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso».
Continuiamo, allora, il nostro percorso quaresimale, con la stessa certezza del salmista: «Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?»