Chiara Biagioni
Non è facile trovare un albergo, una casa, una struttura dove passare la notte a Košice. C’è il tutto esaurito. D’altronde è la prima grande città della Slovacchia orientale che i profughi in fuga dalla guerra incontrano uscendo dal confine ucraino. Secondo i dati aggiornati a domenica 20 marzo, sono arrivati in Slovacchia circa 260mila persone. Negli ultimi due giorni il numero dei profughi sta diminuendo e se fino a qualche giorno fa, oltrepassavano la frontiera anche 15mila persone al giorno, ieri ne sono entrate “solo” 5mila. “Significa che si è esaurita la prima ondata”, dice il vescovo, gesuita, della Chiesa greco-cattolica di Košice, mons. Cyril Vasiľ che ci accoglie in curia.Il seminterrato è diventato un magazzino dove si fa fatica a passare tra pacchi, buste e scaffali pieni di generi di ogni tipo, dalle tende ai panini confezionati. È il segnale inequivocabile che qui la Chiesa è in primissima linea nell’aiuto e nell’accoglienza dei profughi.
“Temo però che siamo al silenzio prima della tempesta”, osserva il vescovo. “Perché se i combattimenti continueranno, anche le persone che ora stanno oltre confine e stanno aspettando di tornare a casa, decideranno anche loro di oltrepassare il confine”. In Slovacchia, la maggior parte degli ucraini è solo di passaggio. Le statistiche confermano infatti che delle 260mila persone arrivate sul suolo slovacco, “solo” circa 35/38mila hanno chiesto di fermarsi e di registrarsi. La maggior parte viene dall’Ucraina orientale e centrale. Spessissimo sono persone di lingua madre russa. Le città di provenienza sono Kiev, Kharkiv Kherson, Kramatorsk, tutti nomi diventati ormai familiari. “È gente che ha viaggiato per giorni, che arriva stanca, stressata, sfiduciata”, racconta il vescovo. “Con molta umiltà, quasi timidezza, sempre con molta gratitudine, accettano gli aiuti. C’è chi ha bisogno di parlare e si apre con un fiume di racconto. Chi invece preferisce chiudersi in se stesso e quasi catatonico non risponde. Ci sono anche situazioni di gente che va in crisi di panico. Una madre che cerca il figlio perso. Una moglie che riceve la telefonata che comunica la morte del marito.Mi ha colpito una bimba alla stazione di Kosice che teneva tra le braccia una gabbietta con un uccellino dentro. La teneva stretta, appoggiata tra i bagagli. Era tutta la sua casa, il mondo che le era rimasto”.
Qui, nella curia di Košice, l’accoglienza fin da subito è diventata “logistica”. Era chiaro che la situazione in Ucraina sarebbe esplosa. Appena sono cominciati i primi bombardamenti, da Košice sono partiti subito i seminaristi al confine, con i primi aiuti umanitari. Gli ufficiali di dogana hanno dato il permesso a sacerdoti e suore di stare alla sbarra della frontiera così che fossero loro le prime persone che i rifugiati incontravano una volta arrivati in Slovacchia. Lì, può succedere di tutto: è capitato ai sacerdoti benedire una donna arrivata morta sul bus mentre una suore ha aiutato una donna a partorire. Convocato il presbiterio, si sono individuate tre priorità. Primo: tutti i parroci in accordo con i sindaci si sono messi a raccogliere in un data base gli alloggi, le case, gli spazi pastorali e le chiese che potevano essere disponibili all’accoglienza. Secondo: si è redatta una lista dei volontari. Terzo: raccolta di cibo, vestiario, prodotti per l’igiene, individuando poi magazzini e punti di raccolta. La macchina umanitaria si è costruita cosi, strada facendo e cambiando secondo le nuove esigenze pratiche che emergevano: dalle coperte all’acqua calda per il latte in polvere dei bambini. Anche il sistema dell’accoglienza si è sviluppato piano piano. La prima ondata di profughi erano i familiari dei lavoratori ucraini che lavorano all’estero. Poi sono arrivate le persone che fuggivano non sapendo dove andare e allora si sono organizzate navette per distribuire gli arrivi nelle città vicine. Si è trattato di un passaggio molto delicato, perché si possono presentare persone che offrono aiuti ma poi si rivelano degli approfittatori.“So che le forze dell’ordine stanno presidiando il confine per tenere sotto controllo questo fenomeno – dice mons. Vasiľ – ma che il rischio ci sia e i tentativi ci siano stati, me lo hanno segnalato anche alcuni dei miei collaboratori. Purtroppo, situazioni come queste tirano fuori il meglio ma anche il peggio delle persone”.
“È una guerra assurda, combattuta con mezzi asimmetrici”, dice il vescovo. Missili e bombe vengono lanciati contro civili, anziani, bambini e madri incinte. “Tutto questo è disumano! Anzi, è anche sacrilego”, ha detto all’angelus, Papa Francesco. E mons. Vasil’ osserva subito: “Se prendete le dichiarazioni del Santo Padre, possono essere lette in un crescendo di espressività, di durezza e di condanna senza mezzi termini. Per quanto non nomini mai capi di Stato e Paesi, le espressioni che usa, vanno ben oltre le dichiarazioni di una politica diplomatica cauta e mediatrice. Per la prima volta ha usato oggi la parola sacrilegio e sono parole che hanno una valenza ben più seria di qualche dichiarazione politica. Non si può ammazzare nel nome di Dio. Chi lo fa commette un sacrilegio”. Il papa ha anche chiesto di non stancarsi di accogliere con generosità. “Ogni notizia fa notizia per i primi tempi poi l’entusiasmo e le emozioni si esauriscono. Viene la stanchezza.Ci sono oggi altre guerre, che sono dimenticate. Abbiamo conflitti congelati un po’ dappertutto. Parlo della Siria. Sono passati 11 anni e la guerra non è finita. Ma chi parla di Siria, oggi? È quindi saggio dire: non stanchiamoci, non dimentichiamoci.Per il momento siamo sulla cresta dell’interesse e della solidarietà mondiale. Tutti sono pronti a donare con generosità e a fare sacrifici. Però occorre anche accettare il fatto che questi sacrifici dureranno e ci sarà richiesto di dare oltre il superfluo, anche il necessario”. Come è cambiata la sua vita in queste tre settimane di guerra? “La mia vita – risponde mons. Vasil’ – non è cambiata, è cambiato il mondo in cui viviamo. Come diceva uno scrittore ceco, Karel Capek, molto è cambiato ma le persone rimangono uguali, solo che adesso sappiamo meglio chi è chi. Chi era una persona perbene, è per bene sempre. Chi è stato fedele, è fedele anche adesso. Nessuno diventa un voltagabbana, se non lo era già prima. Insomma, l’uomo non puoi cambiarlo, sono gli eventi a mostrare chi veramente è”. E poi aggiunge:“Se non fosse una tragedia, dovrei essere grato per quello che è successo. Perché questa crisi mi ha fatto vedere il lato più bello della mia chiesa, dei miei sacerdoti, dei seminaristi, della gente”.