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Le armi della penitenza: la preghiera

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Alessandro Di Medio

In che senso la preghiera è un’arma della penitenza? Essa sembra essere piuttosto l’espressione trasversale di tutta la vita spirituale, quale comunicazione con Dio e celebrazione della sua presenza nella nostra vita. Forse si intende “più preghiera del solito”, ovvero di dedicarsi “di più” alla preghiera in Quaresima? È possibile: senz’altro i temi e le atmosfere di questo tempo liturgico inducono i più sensibili a tornare in sé, a esaminarsi, e a fare la revisione di vita; d’altronde ci siamo già espressi sui rischi di vedere nella Quaresima un tempo “speciale” per la preghiera, rispetto a quanto, nella vita di un cristiano maturo, dovrebbe esserci sempre: l’esame di coscienza, appunto, la meditazione, la conversione continua.

Oppure si intende un tipo di preghiera specifico, tipo i sette Salmi penitenziali, o qualche espressione di attrizione, ecc.?

La preghiera intesa come opera penitenziale si comprende solo in relazione alle altre due “armi della penitenza”, e cioè il digiuno e l’elemosina. Già lo scriveva san Pietro Crisologo: “Ciò per cui la preghiera bussa, lo ottiene il digiuno, lo riceve la misericordia. Queste tre cose, preghiera, digiuno, misericordia, sono una cosa sola e ricevono vita l’una dall’altra. Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate.

Con il digiuno, che è stata la prima delle opere penitenziali che abbiamo esaminato perché è in fondo quella che ci atterrisce di più, la preghiera ha un legame molto particolare: il digiuno in qualche modo rappresenta l’offerta che accompagna la preghiera, in senso propiziatorio ed espiatorio; ma anche, e forse è la cosa più interessante, nel digiuno abbiamo modo di esplorare il nostro limite, la nostra fragilità, la nostra vulnerabilità. Tutte le nostre dipendenze e puerilità gridano nel digiuno, e quanto di noi abitualmente pensiamo, ritendendoci molto avanti, si dissolve nella rude realtà del bisogno di un debole.

Ebbene, proprio in questo stato la preghiera ha senso, perché la essa è Parola e Spirito, ci permette di contattare, per quanto fugacemente, l’Unico che è davvero oltre i limiti della nostra povera carne, e che non è certo il nostro Io ideale, la variante di noi stessi messa sul piedistallo delle nostre patetiche aspettative su noi stessi.

La preghiera che accompagna il digiuno ci ridimensiona, mostrando che la nostra grandiosità, che è tutta nella nostra testa, e che va in pezzi quando lo stomaco è vuoto e ci afflosciamo, può e deve lasciare spazio all’Unico davvero forte, davvero vivo, davvero autosufficiente. Se il digiuno mette a stecchetto il nostro corpo, la preghiera fa fare la dieta all’ego, ricordandoci che solo in Dio, proprio perché è oltre, ma al contempo vicinissimo a noi, la nostra carne tremebonda può trovare pace, può trasfigurarsi, e diventare carne di comunione tra Dio e l’uomo, nel “sì” perfetto e irrevocabile del primo e in quello da ridirsi quotidianamente del secondo.

Se il digiuno resetta il nostro rapporto con le cose e i bisogni, la preghiera resetta quello con Dio, e ci ricolloca nella figliolanza, nello stomaco vuoto del “figliol prodigo” che siccome ha fame torna dal Padre, perché sa che solo da Lui troverà da mangiare.

Ci assedia l’angoscia di mille criticità potenziali, che vanno dal risalire del picco dell’attuale pestilenza, all’ipotesi di un conflitto mondiale: cerchiamo in tutto questo lo sprone a una preghiera umile, accorata, che ammetta al contempo la nostra incapacità di uscire da soli dal male, e il nostro bisogno di un Salvatore.

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