DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

Siamo arrivati alla quarta domenica di Quaresima, la domenica cosiddetta “laetare”: la liturgia, oggi, ci parla infatti di gioia, di consolazione, ci invita a rallegrarci.

Ma come può, oggi, la Chiesa chiederci di gioire, di rallegrarci? La pandemia ha ripreso vigore e con essa la paura del contagio; non bastasse, ecco la guerra che sta continuando a seminare morte, distruzione, sofferenza e, quella che è scoppiata a due passi da noi, ci ricorda i tanti conflitti che, nel mondo, stanno uccidendo e privando della vita, sotto ogni punto di vista, uomini, donne, bambini; poi, la maggior parte delle nostre famiglie vive una situazione economica precaria nella difficoltà di arrivare con dignità alla fine del mese…e le prospettive, in questo senso, sono tutt’altro che rosee; a tutto ciò si aggiungono le personali difficoltà quotidiane, i pesi della malattia, delle rispettive situazioni familiari…le proprie fragilità.

Dentro a tanta morte, quale gioia ci riserva oggi la Parola? 

«Un uomo aveva due figli…», inizia così la parabola del padre misericordioso, che tutti conosciamo. C’è il figlio minore per il quale il padre non conta nulla: ciò che vale è il suo patrimonio e, attraverso esso, procurarsi tutte le condizioni per divertirsi senza alcuna preoccupazione.

Se ne va di casa con la sua parte di eredità ma l’euforia, l’illusione finiscono presto: lontano dal padre, la vita non è più vita, lontano dal padre si spegne ogni barlume di gioia. E allora? Si mette a piangere? Prova nostalgia del padre? Desidera correre a casa per dargli conforto dopo averlo abbandonato? No…non è l’amore per il padre a spingerlo a tornare verso casa, ma la pancia che brontola, i porci, in mezzo ai quali si ritrova a vivere.

E il padre? «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò…disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Suo figlio non è pentito, lo sa bene il padre, ma questo Padre accoglie, abbraccia, perdona senza condizioni.

Il figlio maggiore, quello buono, quello bravo, l’instancabile lavoratore rimasto a casa, si indigna: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Risentimento, orgoglio, egoismo…tutto gettato addosso a colui che non considera affatto suo padre, ma un cattivo datore di lavoro. Entra a far festa, insiste il padre.

L’evangelista Luca non ci dice se il figlio minore, alla fine, si pente davvero o magari ha tentato nuovamente di andar via; non dice neppure se il figlio maggiore sia entrato in casa a festeggiare il fratello ritrovato…nessun finale romanticamente fiabesco, nessuna soluzione scontata o facile moralismo.

Il Vangelo ci dice ancora una volta che Dio ci considera adulti, che Dio affida alle nostre mani le decisioni, che Dio non interferisce con le nostre scelte. Siamo drammaticamente liberi, scrive un teologo, e, purtroppo, incapaci, proprio come stiamo toccando con mano oggi in questo nostro tempo.

Incapaci di gioire di questa libertà, incapaci di riconoscerci figli, incapaci di riconoscerci fratelli…e di fronte a tutto ciò c’è un Dio, Padre, che non cede alla tentazione di incatenarci a casa per non farcene allontanare, di compiere gesti autoritari per fermare le nostre nefandezze, di ritenere di sapere lui quale sia il bene dei figli e di imporcelo. Dio che è Padre lascia che facciamo il nostro cammino, ma non ci abbandona. E questo è motivo di consolazione, il sentirsi amati incondizionatamente da un Dio che, ogni volta, ci raccoglie aspettandoci a braccia aperte, senza esigere prima percorsi di pentimento e senza sottoporci ad esami di riammissione alla casa da cui ce ne siamo andati.

Se avremo piena consapevolezza di tutto questo, se sapremo incarnarlo nella nostra vita, se sapremo testimoniarlo agli altri con la nostra semplice esperienza di vita…beh…non fermeremo all’istante tutte le guerre, i conflitti e le storture del mondo, ma compiremo i primi passi necessari per cominciare ad impregnare la nostra vita, la nostra storia, la nostra umanità della bellezza di essere figli dell’unico Padre, fratelli di ogni uomo.

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