Silvia Rossetti

Si parla spesso di “modelli educativi” sbagliati, di famiglie “disfunzionali” e di genitorialità fragile. Sui media, però, più che sollecitare il confronto e proporre soluzioni, si tende a elaborare giudizi pesanti come macigni e in qualche modo definitivi.

La famiglia non può vivere l’educazione dei propri figli come un “fatto privato” e, soprattutto in un momento complesso come quello attuale, c’è bisogno di cooperare. In gioco c’è il futuro dei nostri figli e dell’intera comunità civile.

Le personali difficoltà quotidiane, le evoluzioni dei singoli, i cambiamenti sono situazioni a cui il “sistema famiglia” è costantemente sottoposto. Si tratta di variabili intimamente connesse ai mutamenti del contesto sociale e politico. Per questo motivo le risposte alle difficoltà non possono essere autoreferenziali, perché inevitabilmente confluiscono su uno scenario che riguarda l’intera collettività.

Sono prove grandi e piccole a determinare lo squilibrio e le difficoltà relazionali all’interno di un nucleo familiare: i problemi di lavoro dei genitori o di studio dei figli, lo stress quotidiano, il disagio economico, un lutto improvviso, una patologia, un trasferimento… Esse richiedono, soprattutto ai genitori, la capacità continua di ri-calibrare i propri interventi educativi e di cercare nuovi assetti.

Per riuscire a raggiungere un buon livello di “omeostasi”, ovvero di autoregolazione, la famiglia deve saper dialogare in maniera efficace, saper essere flessibile e coesa. Alla comunicazione, in maniera particolare, occorre dedicare la maggiore cura, avendo consapevolezza che essa si esprime più con i piccoli gesti quotidiani che attraverso le dichiarazioni di intenti. In casa ci vuole ascolto, rispetto e apertura nei confronti dei diversi membri del nucleo. In adolescenza la ricerca del dialogo da parte dei genitori deve essere caparbia e determinata, capace di sostenere e aggirare anche dei dolorosi rifiuti.

Grande attenzione, inoltre, va riservata alla salute emotiva di genitori e figli. Il linguaggio delle emozioni a volte può essere contorto, ma mai è incomprensibile a chi riservi all’altro da sé amore e premura.

Nella scuola c’è fermento ormai da qualche anno attorno a questi temi, ma il “bagno” emotivo e sentimentale dei ragazzi avviene in primo luogo all’interno delle mura domestiche. Sono i genitori i primi “alfabetizzatori” emotivi dei propri figli, insegnano ai bambini strategie e modalità relazionali passando loro anche le proprie criticità.

Essere famiglia vuol dire ricercare continuamente una sintonia emotiva per regolarsi reciprocamente. Vuol dire maturare assieme delle consapevolezze, anche attraverso la sofferenza. Altro momento essenziale dell’essere famiglia è la disponibilità all’accoglienza reciproca che passa, inevitabilmente, attraverso il “riconoscimento” dell’altro, al netto delle proprie proiezioni e aspettative. Essere “riconosciuto” nella propria identità e peculiarità vuol dire anche essere “accettato” e “valorizzato”. Soltanto queste premesse possono portare a una sana ed efficace progettualità ed evitare derive tossiche.
A prescindere dalla buona volontà e dal livello di consapevolezza, i singoli non possono farcela da soli. Si torna, quindi, a ribadire la necessità di politiche mirate e buoni legami con il territorio e la scuola. Genitori e figli devono poter usufruire di sportelli di ascolto, consultori, strutture di assistenza psicologica e interventi educativi a largo spettro.

Soltanto una sana interazione tra le diverse parti può sostenere la famiglia nelle varie fasi del suo complesso ciclo vitale e contribuire concretamente alla costruzione di una società migliore.

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