Romina Gobbo
Una strategia contro il terrorismo, un piano d’azione e una tabella di marcia. Sono i compiti che il governo di transizione del Burkina Faso ha assegnato ai 19 membri – tra militari e civili – della task force istituita appositamente il 5 aprile. Giusto in tempo prima che la popolazione cominci nuovamente ad agitarsi. Il favore con cui era stato accolto il colpo di Stato del 24 gennaio scorso, motivato dai golpisti con l’incapacità del presidente in carica Roch Marc Kaboré di sconfiggere terrorismo e corruzione, si sta spegnendo. L’intensificarsi degli attacchi dopo l’instaurazione del governo di transizione, guidato dal presidente golpista Paul-Henri Damiba, e il silenzio relativo alla strategia da perseguire hanno suscitato parecchi dubbi, soprattutto nei giovani, lasciando presagire nuove manifestazioni.
“Il fatto che il golpe sia avvenuto senza spargimento di sangue ha fatto sì che al Paese non siano state inflitte sanzioni pesanti, tuttavia il nuovo governo va tenuto sotto pressione affinché persegua ciò che ha annunciato”, spiega Andrea Romussi, ambasciatore d’Italia in Burkina Faso.
“Contro la Francia”. Il rapimento della suora marianista Suellen Tennison, nella notte fra il 4 e il 5 aprile, nella parrocchia di Yalgo, provincia di Namentenga, ha di nuovo posto il Burkina Faso all’attenzione dei media internazionali. Le città del nord – Gorom-Gorom, Djibo, Dablo, Kelbo, Dori… -, in prossimità del confine con il Mali, non sono più sicure. Il vescovo di Dori, mons. Laurent Birfuoré Dabiré, si sposta con l’aereo, così come i cooperanti italiani, ai quali è vietato di uscire dalla capitale, se non in casi improrogabili e non in auto. Ougadougou al momento sembra più sicura, anche se nessuno ha dimenticato l’attacco, il 15 gennaio 2016, all’hotel Splendid e al caffè Cappuccino, quando un commando di terroristi uccise 27 persone e sequestrò 150 ostaggi, liberati dopo un lungo scontro a fuoco. Il Cappuccino ha riaperto, ma oggi i controlli sono assidui. La città cerca di difendersi con muri, recinti e guardie. “Vendetta contro la Francia” fu la rivendicazione di Aqmi, il ramo nordafricano di al-Qai’da. All’epoca, nella capitale burkinabé c’era la base delle forze speciali francesi attive nell’operazione Barkhane, lanciata per contrastare il terrorismo nel Sahel. Oggi le cose sono cambiate, perché a fine 2021 il presidente Emmanuel Macron ha deciso di dimezzare i propri militari nella regione, a causa dei costi troppo alti. Ma a quella ragione, ne va aggiunta un’altra: la sempre più visibile insofferenza della popolazione nei confronti dei francesi. I burkinabé hanno le idee chiare. “Continuano a considerarci una loro colonia, nonostante abbiamo ottenuto l’indipendenza nel 1960”. Da allora il “Paese degli uomini integri” ha registrato 12 anni di governi civili e 50 anni di governi militari.
“Camminare sull’oro”. Dell’instabilità si sono giovate le potenze straniere che si sono spartite le ricchezze del sottosuolo. “Da bambini – racconta il vescovo di Kaya, mons. Téophile Nare -, noi non sapevamo di ‘camminare sull’oro’. Lo abbiamo scoperto quando sono cominciate ad arrivare le multinazionali, le stesse che ancora oggi detengono le concessioni minerarie”. Ma, oltre alle attività legali che, anche se non in condizioni ottimali, forniscono lavoro ad oltre 700mila minatori, vi sono giacimenti clandestini, gestiti da organizzazioni criminali, da società private non ben identificate, dagli stessi terroristi. Significa traffici, denaro sporco, e manodopera sfruttata. E, naturalmente, guerra tra bande. Convogli con oro, droga, esseri umani attraversano il Sahel, fascia di territorio a sud del deserto del Sahara, e prendono la via della Libia e poi dell’Europa. In cambio, denaro e armi, che servono a combattere una guerra non convenzionale, sempre più violenta, che non risparmia nessuno”.
“Per vincere il terrorismo – riprende l’ambasciatore Romussi – il governo di transizione necessita del sostegno di tutti i partner tradizionali. Noi stessi ci sentiamo di continuare nella collaborazione. Si tratta anche di riorganizzare le forze armate, stipendiarle e addestrarle, perché devono contrastare gente bene armata, che conosce il territorio, e pronta ad uccidere”.
Gli abitanti delle città del nord, che hanno visto i loro villaggi rasi al suolo dalla furia jihadista, si sono riversati a Kaya, circa 130 chilometri da Ouagadougou, dove sono stati redistribuiti nei sei campi profughi gestiti dalla Ocades, la Caritas locale, guidata da abbé Adelphe Rouamba. “Come Chiesa cerchiamo di prenderci cura degli sfollati – dice mons. Nare -, che sono ormai un milione e mezzo. Con l’aiuto delle Nazioni Unite e di varie onlus abbiamo distribuito viveri, coperte, e farmaci”. Ma l’afflusso è continuo e le risorse scarseggiano. Soprattutto si pone il problema dell’acqua, in un territorio provato dal cambiamento climatico.
“Acqua nel Sahel”. È lì che mons. Pier Giorgio Debernardi sta concentrando la sua attenzione. Il vescovo emerito di Pinerolo ha scelto di trasferirsi in Burkina Faso, al servizio della Chiesa locale. Con gli amici Roberto Giuglard e Patrizio Righero ha fondato la onlus italiana “Acqua nel Sahel”, con l’obiettivo di costruire pozzi. Sono già una cinquantina in varie parti del Burkina, ma oggi l’emergenza riguarda le aree dove sono concentrati i profughi. “La risposta al bisogno d’acqua è fondamentale – dice mons. Debernardi -. Collaboriamo con gli altri leader religiosi e con le autorità civili per mettere fine alle peregrinazioni delle donne che ancora percorrono 7, 8 chilometri al giorno con i secchi in testa. Quando vedo gli sfollati, ammassati, senza più nulla, mi si stringe il cuore. Conosco bene le terre da dove arrivano. La mia prima destinazione fu Dori al nord. Era un piacere girare per il Sahel, a piedi o in auto, senza paura. Poi è finito tutto. Nel 2016 ci hanno mandati via, preti, suore, funzionari governativi, troppo pericoloso per i bianchi. Mi sono trasferito in capitale, dove di domenica celebro la messa nella cappella del Movimento Shalom fondato negli anni ’70 a San Miniato, in Toscana, da don Andrea Cristiani. Da allora è presente soprattutto in Africa, dove opera per la pace, a partire dall’educazione dai più piccoli agli universitari. E sostiene le adozioni a distanza, con il coordinamento di suor Sabine Kima”.
Terra di reclutamento. “La Chiesa del Burkina è impegnata ad evitare contrapposizioni, questa non è una guerra di religione – rimarca mons. Nare -. Sono stati ammazzati i cattolici, così come i musulmani e i protestanti.
Pensiamo che il terrorismo abbia preso piede perché il Nord si è sempre sentito abbandonato dai governi centrali.
Non ci sono servizi: né strade, né scuole, né dispensari. La popolazione vive di agricoltura di sussistenza e di pastorizia. In questa situazione di povertà, i giovani sono un terreno facile di reclutamento”. “La coesione sociale sta andando in frantumi – conclude mons. Debernardi -. Il terrorismo ha avvelenato gli animi. Ci si uccide tra fratelli.Se lo Stato vuole vincere, deve ridare ai giovani la speranza.Un giovane intelligente, capace di ragionare, disoccupato, che vede nelle Istituzioni solo corruzione e ingiustizia, o cerca la fuga – 17mila nel 2021 hanno lasciato il Paese -, oppure si mette nelle mani dei terroristi, che gli offrono un ‘lavoro’, illegale certo ma, per chi non ha niente, è una manna dal cielo”.
photosmash_disabled-mediaelement”>
photosmash_disabled-layers”> 20
0 commenti