DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.
Abbiamo bisogno di segni! Siamo uomini e donne che hanno bisogno di vedere con i propri occhi, di toccare con mano. Segni come quelli di cui ci parla Luca negli Atti degli Apostoli, da cui è tratta la prima lettura: «Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli…», e, di conseguenza, «…sempre più venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro».
Anche Tommaso, uno dei Dodici, ha chiesto dei segni, lo leggiamo nel Vangelo. Di fronte agli altri apostoli che gli dicono: «Abbiamo visto il Signore!», lui, che non era presente all’incontro, dice: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non ci credo».
Tommaso è la personificazione della nostra fatica di credere, della nostra difficoltà di affidarci all’azione e alla Parola di Dio.
Per quanto Gesù avesse detto e ripetuto ai discepoli che Dio non lo avrebbe dimenticato nella morte, essi impiegarono parecchio tempo a far riemergere con chiarezza la memoria e la comprensione di quelle parole. L’evangelista Giovanni ci dice che, quando Gesù appare, essi sono chiusi nel cenacolo per paura dei Giudei.
Gesù arriva ancora una volta lì, al centro delle loro paure, delle loro chiusure, come ha fatto ogni volta che si sono dimostrati sordi e ciechi al suo insegnamento. Gesù non si è stancato di loro: li ha sempre corretti, amati, aiutati a crescere. Perché, d’altro canto, credere nel Risorto, aver fiducia che Dio continua ad operare in mille modi la resurrezione anche nel mondo di oggi, significa scommettere ben oltre ciò che si vede e si tocca.
E Tommaso è tosto in tutto ciò. Non si giustifica con gli altri per la sua assenza e tanto meno spende parole per esprimere il rammarico di non aver potuto godere della stessa visione. Egli chiede, rivendica per sé un incontro assolutamente personale, fatto di contatto, di occhi che vedono e mani che toccano. E Gesù? Lo dicevamo anche prima, Gesù non si stanca, non si fa problemi a ripetere, a riprendere. Ci ritorna nuovamente in mezzo, superando le nostre porte ancora chiuse.
E non si impone: «Metti qui il tuo dito…tendi la tua mano e mettila nel mio fianco…», si rivolge così a Tommaso, rispettando la sua fatica e i suoi dubbi, i suoi tempi.
Gesù viene in mezzo alla incredulità di Tommaso e Tommaso trova dentro questa sua incredulità, tutta la tenerezza del suo Signore.
«Mio Signore e mio Dio!»: Tommaso che per l’incontro con il Risorto voleva la fisicità più concreta – voglio vedere, voglio toccare -, ora risponde alla disponibilità del Signore con l’atto di fede più alto. E’ la prova palpabile che quel Gesù che lui voleva toccare fuori, gli è entrato dentro.
«Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi»: lo leggiamo nel libro dell’Apocalisse ma, con altre parole, lo canta anche il salmista: «Il suo amore è per sempre».
Tommaso ha un soprannome, Didimo, che significa “gemello”. Gemello di chi? Tommaso è nostro gemello, perché anche noi rischiamo di passare la vita pensando di credere in Lui, a voler morire per Lui e a sforzarci in questo, ma non ad accettare che Lui possa essere l’amore che muore per me. E’ nostro gemello perché siamo invitati anche noi, ancora oggi, a mettere le dita e il cuore in quelle ferite che continueranno a rimanere aperte fino a quando non sarà entrato, attraverso di esse, l’ultimo dei perduti.