Di Pietro Pompei

DIOCESI – Mentre, in questi giorni siamo stati occupati a celebrare la morte e la risurrezione di Gesù, in molti paesi di questo inquieto mondo imperversava la guerra con le sue violenze, mattanze specie nei confronti di persone deboli come i bambini. Il perversare di queste atrocità, nonostante le nostre preghiere e suppliche singole e della Chiesa, ci interroga sulla nostra fede.
Le coincidenze sono disseminate nel nostro quotidiano a mettere punti fermi della giornata. Spesso non sono programmate e quando siamo colpiti dall’imprevedibile, allora c’è di mezzo il destino e fatalisticamente asseriamo : “ Così doveva succedere!”. E tanto più ne siamo convinti quanto più le conseguenze sono infauste. Ci sono occasioni che ci fanno riflettere ed operare in modo fino al momento impensabili. Per quanto riguarda le buone azioni, mi hanno insegnato di chiamarle “grazia attuale”, a mettere a prova la propria libertà.
Un paio di decenni fa, il venir io dalla lettura di un libro di un caro amico, pieno di cultura, ma pauroso nella fede ed incontrarmi con la notizia della morte del filosofo Norberto Bobbio che a quella fede non è mai riuscito ad attingere, è stato per me occasione di ripensare al mio credo. La morte di un filosofo come Bobbio, non poteva passare nell’indifferenza di quanti, per un verso o per l’altro, erano stati segnati dal suo pensiero. Egli ha molto inciso nella società del XX secolo. Ha sfiorato anche noi che ci siamo abbeverati a ben altre fonti ( Sciacca, Pareyson ed altri), che una certa moda culturale ha fatto del tutto chè fossero ben presto oscurate. La filosofia di Bobbio si è fermata davanti al “cancello” del proprio limite. Per scavalcarlo avrebbe dovuto attingere alla fede, ma sarebbe sembrato un tradimento. Molti che si sono ritrovati in queste condizioni nei confronti della fede, sono ricorsi a parole limitative quali il mito o la mancanza di documentazione storica, quasi ad insuperbire di fronte alla scelta altrui; come se fosse un merito, un atto di coraggio quello di professarsi non credenti, e di codardia e dabbenaggine la posizione opposta.
Spesso mi son chiesto se c’è più coraggio nel credere o nel non credere, visto che è ancora in auge la moda di cultura atea ad insolentire il credente. Entrambi giungono allo stesso confine presso il quale o ci si ferma o si tenta un atto di fede. Ma quanti atti di fede, molto meno impegnativi di quelli religiosi, facciamo durante il giorno?

La fede consiste nello scendere dalla propria superbia e chiedere una “lanterna” che ci renda capaci di vedere al di là del nostro limite. La luce è un dono coesistente alla nostra vista. Senza potremmo procedere a tentoni, con una conoscenza approssimativa. Allora la spiegazione e il senso che si vogliono dare alla propria esistenza non soddisfano più e gli interrogativi vogliono risposte accettabili, specie là dove la nostra intelligenza trova assurdità come quella del male che imperversa nel mondo.
La sofferenza ci attanaglia specie in questi giorni di guerre particolarmente distruttive e spietate: quale spiegazione dare? Le notizie delle violenze che quotidianamente subiscono i bambini, ci hanno sconvolto. Come si fa ad avere fede in un Dio buono? Lo scrittore ateo Camus, nel libro “la Peste”, così si esprime:” Io ho un altro concetto dell’amore. E mi rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione in cui i bimbi sono torturati”.
Nel cristiano non c’è rassegnazione, egli ha il coraggio della denuncia e della preghiera che attinge nella fede in Cristo crocifisso e risorto che ha fatto della sofferenza, sorgente di vita e non di morte. Nel buio della totale dissacrazione, la fede accende “la lanterna” con la quale si può constatare come l’amore misericordioso di Dio non limita la libertà dell’uomo che dà un senso alla propria esistenza.

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