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Moldova: alla frontiera di Palanca arrivano i profughi da Odessa

(Foto Sir)

Daniele Rocchi

Il flusso è lento ma costante. I profughi ucraini giungono alla frontiera di Palanca, in Moldova, con l’essenziale chiuso in uno o due trolley. Provengono in particolare da Odessa, colpita il 23 aprile scorso da un attacco missilistico russo che ha provocato cinque vittime, tra cui un neonato di tre mesi, e circa 20 feriti. Ma ci sono anche ucraini di altri centri bombardati da Mosca, in particolare Mykolaïv.

Una volta registrati, con l’aiuto dei volontari che stazionano qui dal 24 febbraio scorso, cioè dal giorno della invasione russa in Ucraina, valicano il confine moldavo. I più fortunati trovano parenti e amici ad accoglierli e portarli via in auto, ma la maggior parte si ferma ad attendere i minivan messi a disposizione dal Governo, da varie ong e dalle Chiese per essere trasferiti nel punto di ristoro e di assistenza medica posto a tre km di distanza. Da questo enorme campo partono i bus per Chișinău e per destinazioni più lontane, ma più richieste, come la Romania, la Polonia e altri Paesi europei.

Inna e Caterina sono due giovani madri, fuggite via da Odessa insieme ai loro tre bambini piccoli di 6, 10 e 5 anni. I mariti, raccontano, “sono rimasti a difendere il loro Paese dall’invasore russo”. Dopo il bombardamento di sabato scorso hanno scelto di “portare via i figli per evitare che potessero morire anche loro. Non pensavamo che potessero attaccare anche Odessa e invece ecco i missili lanciati sabato dal Mar Caspio. Eravamo a passeggio nel parco quando abbiamo visto un missile viaggiare sopra le nostre teste. Tutti correvano mentre si udivano esplosioni e si alzava un fumo nero misto a fiamme”. In braccio a Inna, raggomitolata in uno zainetto, Nusha, la gattina di casa. Sono tante le famiglie in fuga che portano via con sé cani, gatti e altri piccoli animali domestici, considerati a pieno titolo membri del nucleo familiare. “Stiamo aspettando il van per andare a Chișinău. Siamo partite questa mattina in bus, Odessa dista da qui solo 50 chilometri”. Nei volti tirati emerge stanchezza e preoccupazione per chi è rimasto.

“Nella capitale moldava non conosciamo nessuno. Resteremo qui fin tanto che la situazione a Odessa non migliorerà. Stamattina – rivelano le due donne – l’allarme antiaereo è risuonato per tre ore. È una situazione dura da sopportare perché i piccoli sono le vittime più deboli di questa guerra. Sono terrorizzati. La notte dormiamo nei corridoi, nei sottoscala. Quando arrivano le bombe la terra trema”.

Il primo pensiero di Inna e Caterina è quello di far riprendere il prima possibile le lezioni ai loro figli. “Abbiamo portato con noi i libri di scuola e gli astucci con le penne, colori e matite”, dicono le due tirando tutto fuori da uno zainetto. È anche questo un modo di allontanare lo spettro di violenze e barbarie viste in molti centri ucraini in questi due mesi di guerra.

“È terribile, la mia città viene bombardata ogni giorno. Come si può vivere così?”

dice Sofia, un’anziana donna di Mykolaïv, anche lei in attesa di un minibus. Raccoglie il suo piccolo bagaglio, si annoda bene il foulard sotto il mento e sale sul pulmino giallo che nel frattempo è arrivato. Dietro di lei salgono anche Inna e Caterina con i figli. “La speranza è che finisca tutto presto, ma purtroppo siamo solo all’inizio”.

I timori delle due donne di Odessa sono per le date del 2 e del 9 maggio, quando, avvertono, “potrebbe accadere qualcosa di grave”. Chiaro il riferimento ad un’azione russa per ‘ricordare’ il cosiddetto rogo di Odessa, del 2 maggio 2014, scoppiato dopo scontri tra fazioni di militanti filo-russi e di sostenitori filo-ucraini che provocò 42 morti. Il 9 maggio, invece, sarebbe la data scelta da Putin per celebrare la vittoria sull’Ucraina che andrebbe così a coincidere con la parata annuale sulla Piazza Rossa, che si tiene in occasione della vittoria della Russia sulla Germania nazista nella Seconda Guerra mondiale.

In pochi minuti il minibus arriva al Centro di ristoro e di assistenza medica, dove sono attive diverse ong, come l’italiana Intersos che qui gestisce una clinica mobile per chi ha bisogno di un medico e un presidio veterinario, l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, e altre agenzie umanitarie, come l’austriaca Concordia che si occupa di distribuire i pasti ai profughi in arrivo. In vari punti del centro sono attive reti wi-fi per permettere di comunicare con i parenti a casa e un piccolo parco giochi per i più piccoli. Oggi sui tavoli della mensa vengono distribuiti piatti di plăcintă, una pasta sfoglia imbottita di carne, formaggio o mele. A cucinare questo piatto tipico della cucina moldava le famiglie del posto. Tra i volontari di Concordia ci sono anche delle donne ucraine, arrivate qui subito dopo lo scoppio della guerra, che adesso si prodigano per i loro connazionali in fuga.

Davanti alla clinica mobile di Intersos c’è una piccola fila per andare dal medico. Ottavia Sanvito, project manager di Intersos, spiega che “si tratta principalmente di persone traumatizzate che arrivano con sindrome da stress, mal di testa, ipertensione, tachicardia. Alcune di loro lamentano anche sensi di colpa per essere partite lasciando il resto della famiglia. Ovviamente ci sono anche profughi affetti da malattie come il diabete e cardiopatie”.

“In ogni caso – racconta il medico olandese di Intersos, Atze van der Wyk – prima parliamo con queste persone per tranquillizzarle, solo dopo prescriviamo medicine o cure. Lo stress di questi profughi è evidente ma facciamo il possibile per alleviare la loro sofferenza psichica e fisica”. Un’attenzione particolare viene riservata ai disabili: “Ne abbiamo evacuati qualche centinaio qui a Palanca – dice Sanvito –, venivano tutti da zone di combattimento. Li abbiamo inviati in luoghi idonei anche fuori la Moldova”. Dopo il bombardamento di sabato scorso di Odessa a Palanca sale la preoccupazione per l’escalation del conflitto: “Ci stiamo preparando a diversi scenari – spiega la responsabile di Intersos – e il peggiore è la guerra a Odessa che riverserebbe centinaia di migliaia di profughi qui alla frontiera. Per questo non vogliamo farci trovare impreparati”.

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