Gigliola Alfaro
“Violenza online. I social network nuovi protagonisti della protezione dei minorenni?”: il titolo della conferenza promossa, martedì 10 maggio a Roma, da Terre des Hommes, è una domanda, ma anche una concreta possibilità nel momento in cui cambiasse il quadro normativo attuale, che non offre una difesa efficace dei bambini, bambine e adolescenti esposti a pericoli e violenza sulla rete. Per rendere più efficace la tutela dei minorenni vittime di reati online questo l’organizzazione presenta una serie di proposte di riforma normativa.
Federica Giannotta, responsabile Advocacy di Terre des Hommes, illustra al Sir gli elementi “critici” che minano il percorso della difesa delle vittime dei reati on line e la necessità di una loro revisione. “Immaginiamo un minorenne o anche un neo maggiorenne che vivendo sui social sia colpito da hate speech. La prima cosa che può fare è scrivere al social, usando i suoi canali interni, e segnalare il contenuto. Il social molto spesso risponde: ‘Mi dispiace ma quello che mi segnali non viola il nostro standard’. A questo punto il ragazzo può decidere di sporgere querela all’autorità giudiziaria contro la persona che gli ha scritto quel commento o messaggio sperando di colpire l’autore dell’hate speech. Il pm lavora al caso ma c’è un nickname, dietro al quale una persona si nasconde in modo insidioso, per cui il caso viene archiviato.
Dal 2016 ad oggi i reati di diffamazione on line sono stati archiviati nell’80% dei casi,
come recentemente confermato dal ministro della giustizia, Marta Cartabia. Il problema è proprio che il giudice non riesce a individuare la persona che si cela dietro a quel nickname. Un ulteriore problema è che non si sa dove viene commesso quel reato. Quando parliamo dei social è tutto molto liquido. Anche in questo caso tentativo si arriva a un’archiviazione”. Altra via è “scrivere una pec, cioè una comunicazione ufficiale a uno dei social in Italia, ma tutti rispondono che non hanno giurisdizione per gli italiani suggerendo di scrivere alla casa madre, all’estero. Ancora una volta la persona resta senza nessun tipo di difesa. L’ultima strada da provare è di rivolgersi al Garante per la privacy, ma risponderà che ciò esula dalle sue competenze”.
Di fronte a tale situazione e anche alla frustrazione dei difensori di poter fare giustizia ai loro clienti, afferma Giannotta,“la nostra prima richiesta è che si agevoli, da subito, la comunicazione con le piattaforme per i processi di segnalazione”, con “eventuale rimozione, di contenuti illeciti”.In particolare, “tutti i social network che presentano un collegamento sostanziale con l’Italia devono rendere disponibile un canale di contatto telematico (preferibilmente una casella pec) attraverso il quale qualsiasi persona, genitore, difensore, ente o autorità possa notificare la presenza sulla piattaforma di contenuti ritenuti illegali o inviare qualsiasi altra comunicazione di natura legale. Le notifiche e le comunicazioni inviate al contatto telematico in esame devono essere considerate idonee e sufficienti al fine di far acquisire al gestore una conoscenza effettiva circa i contenuti o i fatti segnalati”.
In ambito giudiziario,“chiediamo che si renda effettivamente perseguibile l’autore del reato, anche mediante la sua identificazione. È necessaria, pertanto, una modifica normativa che preveda meccanismi di identificazione giudiziale degli utenti che si muovono online dietro nickname, soprattutto nei casi di diffamazione e di hate speech in genere”.Conformemente ai nuovi protocolli della Convenzione di Budapest, in fase di emanazione, “i social network dovrebbero essere tenuti a fornire tutti i dati utili all’identificazione dell’utente, entro tempi certi (massimo 48 ore), su provvedimento motivato del giudice. Potrebbe essere statuito che si tratti di una prestazione obbligatoria, che sarebbe sanzionata ad esempio in via amministrativa in caso di inosservanza, con tracciamento del numero di inadempimenti agli ordini delle autorità procedenti”. La riforma potrebbe essere contenuta nel Codice di procedura penale.
Inoltre, prosegue Giannotta, “chiediamo che sia individuato, anche per i reati commessi via social, il luogo di attuazione della condotta illecita (giurisdizione)”. Dunque, si rende necessario “dover risolvere il problema dell’impossibilità di individuare con chiarezza e certezza il Paese di commissione del fatto illecito, quando perpetrato via social network”. Con una riforma del Codice penale, “si considera in ogni caso commesso nel territorio dello Stato il reato commesso mediante l’impiego di sistemi informatici o telematici in danno di persona offesa che su tale territorio abbia la residenza, la dimora o il domicilio. In caso di più persone offese procede il pubblico ministero che ha iscritto per primo la notizia di reato”.
Non solo: “Chiediamo che sia individuata la competenza territoriale in modo certo, senza dover ricorrere a criteri supplettivi (competenza dell’autorità giudiziaria). Per la determinazione della competenza territoriale dei reati commessi attraverso la rete, “la competenza dovrà essere determinata con riferimento alla persona offesa dal reato”. Quindi intervenendo sul Codice di procedura penale, “nel caso di reati commessi mediante l’impiego di sistemi informatici o telematici è competente il giudice del luogo di residenza, domicilio o dimora della persona offesa”. E, precisa Giannotta,“questo è importante per evitare il forum shopping, cioè che i difensori spostino la difesa nel tribunale che è più comodo per loro”.
In aggiunta, “chiediamo, in linea con il Digital Services Act (Dsa) – Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio,
l’istituzione di un’Autorità Garante dei diritti degli utenti della rete e di protezione dei minori. L’obiettivo è che possa prevenire e proteggere il minore da forme di violenza crescenti,
assicurando una rapida presa in carico, in 48 ore, della sua segnalazione che permetta una tempestiva rimozione del contenuto illecito”. Ad esempio, “ci riferiamo alla challange, che troppo spesso portano alla morte dei ragazzi. Oggi in Parlamento si sta discutendo come modificare l’articolo che riguarda l’istigazione al suicidio. Secondo noi la riforma penale non è quella che ci aiuterà in questa sfida perché nelle challenge non si riesce a individuare il reato di istigazione al suicidio, in quanto contengono avvisi del tipo: ‘Non fare questo perché è pericoloso’”. L’Autorità per le garanzie delle reti telematiche dovrebbe occuparsi della correttezza delle comunicazioni telematiche potendo effettuare anche “quel giudizio di bilanciamento necessario nei casi di hate speech e diffamazioni”.
I principi fondanti dell’Authority sono: istituzione per legge, formata da esperti del settore, applicazione di un codice di condotta, vincolante per i social, esclusività del mandato, indipendenza, collegialità, impugnabilità delle decisioni.“L’Authority sarebbe fondamentale in quanto imporrebbe tempi certi per la rimozione (massimo 48 h) anche nei casi di sfide on line pericolose, fake news diffamatorie e/o pericolose e altro”;potrebbero essere previste sanzioni amministrative in caso di inottemperanza, sulla base di quanto previsto dal Dsa; potrebbe interloquire con i social network e/o rapportarsi col coordinatore dei servizi digitali previsto dal Dsa; verifica degli obblighi di due diligence in capo ai social network, già previsti dal Dsa, tra cui age verification system; analisi rischio per utenza vulnerabile; aggiornamento costante delle misure di protezione dell’utenza a rischio, secondo fasce età; valutazione di impatto annuale su misure adottate per tutelare i minorenni da pericoli online; le sue decisioni sarebbero comunque impugnabili innanzi all’autorità giudiziaria (con la garanzia di un rapido accesso alla tutela cautelare monocratica o collegiale.
Giannotta osserva:“Se si mettono a sistema tutte queste disposizioni lo stesso social può diventare un referente della tutela del proprio territorio web. Tutti gli elementi che proponiamo aiutano la persona a sentirsi meno sola e a essere difesa”.E conclude: “Se dovesse nascere l’Authority servirebbe una campagna di conoscenza e sensibilizzazione in un linguaggio user-friendly, non dovrebbe essere nota solo ai tecnici. Le famiglie dovrebbero sapere di poter contare sul quel tipo di struttura che può per loro intervenire. Dovrebbe essere un salvagente. Ormai tutte le legislazioni europee iniziano a stringere per una responsabilizzazione maggiore dei social”.