Patrizia Caiffa
“Oggi riesco a camminare ma quattro proiettili nelle gambe non ti lasciano più come prima”. Mons. Christian Carlassare, il vescovo comboniano di Rumbek in Sud Sudan che lo scorso anno fu vittima di un grave attentato nella notte tra il 25 e il 26 aprile, nonostante ciò andrà a Juba dal Papa a piedi con un centinaio di giovani della sua diocesi. Camminerà insieme a loro 40 chilometri al giorno per 8 giorni, con catechesi e momenti di riflessione sulla riconciliazione e l’unità, tra il fango e l’acqua della stagione delle piogge e l’insicurezza delle strade interne, spesso oggetto di attacchi da parte delle milizie. “L’unico dubbio è sulla resistenza delle mie gambe ma penso di potercela fare. Comunque ci faremo accompagnare da alcune automobili – dice al Sir -. E’ importante che i giovani intendano il cammino come una marcia della pace per andare incontro al Papa. Chiederemo al governo un’attenzione particolare alla sicurezza e faremo un appello alle milizie perché non ci siano scontri”. E’ questo il clima che si respira a poche settimane dalla visita di Papa Francesco in Sud Sudan dal 5 al 7 luglio, dopo la precedente tappa nella Repubblica democratica del Congo dal 2 al 5. Per il Papa sarà un viaggio in zone di conflitto in sedia a rotelle, a causa del dolore al ginocchio. Una situazione quasi simbolica che può essere equiparata alla stanchezza della popolazione, provata da anni e anni di violenza e quasi disillusa dalla possibilità di raggiungere finalmente la pace e l’unità.
Il viaggio del Papa e le attese. Le speranze erano invece al massimo nel 2019 con lo storico gesto di Papa Francesco che baciò i piedi ai leader sudsudanesi, tra cui i due rivali il vice presidente Riek Machar e il presidente Salva Kiir. L’attuale governo di unità nazionale proclama la pace a parole eppure nei fatti c’è ancora tanta violenza. Gli ultimi gravissimi attacchi sono avvenuti nello Unity State, con villaggi bruciati, violenze e stupri.
“E’ importante che anche la popolazione faccia scelte di pace e disarmi i propri territori per rendere reale questo cammino”,
sottolinea il vescovo di Rumbek: “Speriamo che la visita del Papa contribuisca a rilanciare il processo di pace e a darci quell’unità e quella riconciliazione di cui abbiamo tanto bisogno”.
Sullo sfondo del conflitto c’è una grande povertà, per cui “chi ha armi cerca di accaparrare le risorse”. “Oltre al disarmo è necessaria una ripresa dell’economia che ancora non si vede – spiega il vescovo -. Metà della popolazione ha meno di 24 anni, i giovani sono scoraggiati perché non hanno lavoro né opportunità. Il 60% della popolazione è analfabeta, un terzo del Paese è in età scolare, per cui la grande priorità per noi è l’istruzione. Abbiamo 20.000 studenti nelle nostre scuole, sia diocesane sia di istituti religiosi. Ma le energie per la pace dopo tanti anni sono diventate poche e bisogna superare la disillusione”.
L’impatto della guerra in Ucraina. Anche se i sudsudanesi sono poco informati su ciò che accade in Ucraina e nel resto del mondo per la scarsa presenza di media con un approccio internazionale – c’è solo una tv che parla di politica interna e tante radio locali – monsignor Carlassare non perde occasione per far notare le similitudini e le contraddizioni. “Mi sono trovato a far riflettere su come qui ci si ammazzi per l’accesso all’acqua o alle terra mentre in Europa rischiamo una guerra nucleare.
La gente guarda al conflitto in Ucraina con grande sorpresa e disillusione: si chiede come mai anche l’Europa democratica sia potuto cadere in queste dinamiche. Non capiscono perché chiediamo a loro di fare la pace mentre gli europei danno il cattivo esempio”.
Gli effetti del conflitto ucraino si intravedono nell’aumento generale dei prezzi, anche se il grano proviene dall’Uganda (come il carburante) e dal Kenia. “Però potrebbe impattare sui 4 milioni di sfollati che dipendono interamente dagli aiuti umanitari dell’Onu”.
Con la pace nel cuore. Monsignor Carlassare si è insediato ufficialmente nella sua diocesi – dopo quasi un anno di cure e riabilitazione in Italia – lo scorso 25 marzo. E’ tornato nella sua diocesi accompagnato dai genitori e dalla sorella. “Per me è stata una esperienza molto forte. Ma anche per loro, che hanno dovuto superare il trauma vissuto indirettamente – racconta -. Sono tornato con la pace nel cuore e con un perdono che libera.
Quello che ho vissuto mi ha accomunato alla storia e alle sofferenze della popolazione.
Per loro è stato quasi un segno di riscatto, nonostante i sentimenti rispetto a quanto mi è accaduto siano diversi in base alle letture che vengono date ai fatti”.
Le possibili motivazioni dell’agguato. In questi mesi sono stati effettuati quattro arresti – un presunto mandante che continua a dichiararsi innocente, due esecutori e un collaboratore – e c’è già stata una sentenza di primo grado che ora prosegue in appello. Per il vescovo-missionario probabilmente le motivazioni dell’agguato sono dovute ai tanti anni in cui la diocesi di Rumbek è stata vacante, dopo la morte del vescovo Cesare Mazzolari. “Forse si erano formati gruppi di interesse sulle attività della diocesi e il gesto serviva ad allontanarmi – risponde -. Ma i giochi di potere sono lontanissimi dalle mie intenzioni e da quelle della Chiesa in Sud Sudan”. Finora monsignor Carlassare non ha incontrato i suoi attentatori ma ha intenzione di farlo “quando ci sarà più chiarezza sui fatti e una sentenza definitiva”. E se l’inizio della sua missione pastorale è stato turbolento e grave, a distanza di un anno si apre una speranza, resa simbolica dal primo nome che gli ha attribuito la sua gente:
“Mi chiamano War, che in lingua locale vuol dire ‘cambiamento’”.