Daniele Rocchi
(Da Gerusalemme) “Avevamo festeggiato la Pasqua solo due giorni prima quando, il 2 aprile del 2002, gli israeliani entrarono a Betlemme con i carri armati e i mezzi blindati”: vent’anni dopo, padre Ibrahim Faltas, discreto della Custodia di Terra Santa, rievoca così l’assedio israeliano della Basilica della Natività, a Betlemme, durato 39 giorni. Il 29 marzo l’Idf, Esercito israeliano, aveva lanciato l’operazione “Scudo di difesa” in risposta agli attentati terroristici dei miliziani palestinesi delle settimane precedenti.
In piena Seconda Intifada (2000-2005), le più grandi città della Cisgiordania erano state invase dall’esercito israeliano – Ramallah, Jenin, Tulkarem, Qalqilya, Nablus, Betlemme – in quella che è ricordata come la più grande operazione militare in Cisgiordania, dopo la guerra dei 6 giorni del 1967. A Ramallah l’allora presidente palestinese Yasser Arafat rimase isolato fino al 2 maggio nel suo quartier generale, sede dell’Autorità Palestinese.
L’irruzione in basilica. “Per sfuggire alla cattura circa 240 miliziani palestinesi, tra loro anche civili, appartenenti a diversi gruppi di resistenza come Brigate al-Aqsa, Jihad islamica e Hamas, riuscirono a penetrare nella basilica sfondando – ricorda padre Faltas – la porta del nostro convento di santa Caterina, attiguo alla Natività. Ce li siamo ritrovati dentro il chiostro mentre fuori si sentivano bombardamenti e spari. Undici erano feriti. Abbiamo parlato con loro per convincerli ad uscire dal convento ma senza esito. Non volevamo gente armata dentro un luogo santo. Intanto gli israeliani avevano posizionato carri armati e cecchini all’esterno della Natività. Mandarli fuori significava esporli al massacro. Così abbiamo fatto una riunione tra francescani, ortodossi e armeni, vale a dire i tre riti che controllano la basilica, e deciso di ospitarli per quei pochi giorni necessari a risolvere la questione”. L’assedio si protrasse invece per 39 giorni e in questo periodo dentro la basilica si continuò a morire: gli israeliani riuscirono a uccidere 8 palestinesi e a ferirne altri 27. “In questo mese e più – continua padre Ibrahim – siamo rimasti senza luce e acqua, avevamo poco cibo. Gli israeliani avevano tagliato l’energia elettrica per impedirci di comunicare con l’esterno, ma siamo riusciti a mantenere i contatti telefonici usando prima la linea di Casanova, poi l’elettricità del campanile per ricaricare i cellulari, e successivamente la linea elettrica di una sala sotterranea degli ortodossi quando quella del campanile venne scoperta dai soldati. Sono stati forse i momenti più difficili della mia vita e di quella dei miei confratelli (eravamo 30 frati di 17 Paesi). Con noi in convento c’erano anche 4 suore minime, 4 monaci greci e 3 armeni”.
“Occupati, assediati ma non ostaggi”. “Ci sentivamo occupati da dentro, ma non ostaggi, e assediati da fuori”. I cecchini israeliani non esitavano a sparare su chiunque capitasse a tiro all’interno della basilica. “Il 6 aprile – ricorda il francescano – mentre aprivo una finestra per cercare di vedere la vicina scuola di Terra Santa, di cui ero direttore, sono stato raggiunto da una serie di colpi sparati dai soldati israeliani appostati all’esterno. Fortunatamente all’udire gli spari mi sono gettato a terra e solo per miracolo mi sono salvato”. Alla preoccupazione per ciò che accadeva dentro la basilica si sommava anche quella per ciò che stava accadendo all’esterno, a Betlemme, città natale di Gesù, “Signore della pace”. La domanda di padre Ibrahim era sempre la stessa: “Quando finirà tutto questo?”. La risposta tardava a venire complice anche lo stallo diplomatico che nemmeno la missione del Segretario di Stato Usa, Colin Powell, riuscì a smuovere. I colloqui dell’inviato del presidente Usa, Bush, con il premier israeliano, Ariel Sharon e con il leader palestinese Yasser Arafat non portarono i frutti sperati. “Powell – continua il racconto del francescano – lunedì 15 aprile incontrò a Gerusalemme anche i capi delle Chiese promettendo loro di risolvere la questione. In quel momento sembrava ravvivarsi la speranza in un esito positivo dell’assedio. Speranza che si infranse ancora una volta sui carri armati israeliani che avevano stretto ancora di più d’assedio la basilica. Le violenze quotidiane chiamavano altre violenze. I miliziani palestinesi, da due settimane asserragliati nella basilica, a quel punto, decisero di uscire per tornare a combattere. A nulla servirono i tentativi di convincerli a restare”.
“Uscire significava andare incontro a morte certa”.
La telefonata del Papa. Ma quando tutto sembrava crollare definitivamente, una telefonata. “Una delle tante – pensavo – che in quei giorni ricevevo da giornalisti, da parenti, dai confratelli alle quali non sempre rispondevo per lasciare la linea libera a quelle del Custode di Terra Santa, padre Giovanni Battistelli, e del nunzio apostolico, mons. Pietro Sambi. Ma a quella telefonata risposi. Dall’altro capo del telefono c’era il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah: ‘ciao Ibrahim, sono a Roma con il Papa che vuole parlarti’. Erano le tre del pomeriggio. Giovanni Paolo II mi chiese come stavamo, risposi: ‘grazie a Dio, stiamo tutti bene, Santità’. E lui,
‘Abbiate coraggio e continuate a custodire i luoghi santi, Prego per voi. Il Signore è con voi. Vi penso ogni momento, non abbiate paura’.
Nel momento di maggior scoramento era arrivato il Papa a darci speranza. Quando i miliziani assediati nella basilica seppero della telefonata del Papa mutarono atteggiamento e decisero di rimanere. Ringraziarono il Pontefice per i continui appelli alla pace e criticarono i loro capi perché li avevano abbandonati. Quella telefonata evitò una carneficina”. Da quel momento i contatti tra le parti si intensificarono e la figura di padre Faltas si impose all’attenzione di tutti come quella di mediatore tra palestinesi e israeliani. “Questi ultimi – spiega il religioso – comunicavano con gli assediati attraverso di me perché mi conoscevano anche come rappresentante della Custodia davanti a israeliani e palestinesi. Conoscevo i soldati che assediavano la basilica e anche i palestinesi si fidavano di me, al punto che alla fine dell’assedio vollero uscire dalla basilica solo se scortati da me. Era il 10 maggio e finalmente era tutto finito”.
Pace lontana. Almeno così sembrava. Alla gioia per la fine dell’assedio seguì il disincanto per una pace sempre più lontana. Ieri come oggi. “Di lì a poco – ricorda padre Faltas – vedemmo la costruzione del Muro di separazione. Sono da 33 anni in Terra Santa e non è cambiato nulla. Basta vedere quello che è accaduto in questi ultimi mesi tra attentati e morti dall’una e dall’altra parte. Ma di una cosa sono certo: Gerusalemme è una città unica. Se non ci sarà pace a Gerusalemme non ci sarà pace nel mondo. Sono sicuro che se israeliani e palestinesi troveranno una soluzione per Gerusalemme il conflitto israelo-palestinese finirà”.
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