«Per Cristo nostro Signore». A questa espressione, che ricorre spesso nella liturgia, l’assemblea risponde: «Amen». Quasi in automatico. Un po’ troppo in automatico. E infatti, quando non è dovuta la risposta «amen», molti rispondono ugualmente: «amen».
Nella nuova edizione del Messale Romano, quando non si deve rispondere «amen», si è cambiato «per Cristo nostro Signore» in «per Cristo Signore nostro». Una soluzione immediata, efficace, comoda. La scelta più comoda.
Perché perdere tempo a educare il popolo di Dio? Perché prendersi il fastidio di invitare i fedeli a ragionare sulle parole pronunciate, anziché andare a memoria e per abitudine? Perché non far notare ai presenti, che spesso il nostro corpo sta in chiesa, ma con la testa (e il cuore) siamo altrove? Perché non prendersi il tempo e trovare il modo di aiutare i propri parrocchiani a conoscere meglio la struttura della celebrazione eucaristica, e quindi conoscerne di più il legame con la propria vita, verso la «consapevole e attiva partecipazione»?
Non la soluzione più opportuna o più doverosa. La soluzione più comoda.
I predicatori insegnano a non fare il proprio comodo, ma quello che è giusto secondo Dio (e secondo loro), tuttavia nei fatti e nelle scelte preferiamo la via della comodità. E non solo nella liturgia.
Quando i genitori chiedono il battesimo per i propri figli, dobbiamo verificare la loro intenzione di educare alla fede i loro bambini. Ma non spieghiamo loro in cosa consista concretamente e realmente questa responsabilità. Diamo tutto per scontato, facciamo i vaghi. Meglio non chiedere, meglio non porre domande scomode, meglio non metterci di fronte alla realtà. Saremmo sollecitati a fare scelte scomode.
E quando bisogna scegliere i padrini e le madrine, dovremmo verificare l’adesione della loro vita a Cristo, come prevede il codice: «conduca una vita conforme alla fede e all’incarico che assume». Noi ci limitiamo a verificare al massimo che non sia “convivente”, perché porre la questione della fede personale, pare brutto. L’importante è che dicano di non fare sesso fuori dal matrimonio, non il fatto che siano effettivamente credenti. Siamo disposti a salvare tutto: le apparenze, la simpatia, il sentimentalismo, le tradizioni familiari, la serenità. Tranne la fede.
E in vista della cresima, non chiediamo ai candidati come vivano la loro fede e quale rapporto abbiano con Gesù Cristo nostro Signore (o Signore nostro). E in che modo il cammino fatto abbia toccato la loro vita, orientando scelte e suscitando ulteriori domande. Al massimo ci premuriamo di verificare se “sanno le cose” oppure optiamo per la via consolatoria della promessa di rimanere ancora per qualche tempo in parrocchia a “fare le cose”. Non chiediamo l’unica cosa necessaria: se il cresimando sia «in grado di rinnovare le promesse battesimali». Cioè che sia in grado di vivere le promesse battesimali, e non semplicemente “dire” il credo durante il rito della Cresima. Ma sollevare tali questioni diventerebbe veramente scomodo.
Anche nella cresima bisogna affrontare la spinosa questione dei padrini e delle madrine. Ultimamente si sta facendo strada la grande via comoda: togliamo i padrini e le madrine. Perché tirare in ballo la fede, quando si celebrano i sacramenti pare brutto. Perché fare i conti con la realtà e riconoscere che la scelta della vita cristiana è relegata a un’esigua minoranza, ci spingerebbe a un duro esame di coscienza e una esigente conversione.
Se domandi a un prete: «Daresti la cresima, l’eucaristia, l’assoluzione dai peccati a una persona non battezzata?». Certamente risponderebbe: «Assolutamente, no!». Ma se gli chiedi: «Daresti la cresima, l’eucaristia, l’assoluzione dai peccati a una persona che non vive cristianamente?». Probabilmente le risposte risulterebbero variegate, sfumate, ambigue. Come se la vita cristiana si riducesse solo al rito del battesimo e non alla vita che ne consegue. Come se l’appartenenza alla Chiesa sia soltanto una formalità. Come se affrontare la questione della fede sia una strada inopportuna, scomoda, evitabile. La fede.
Qualcuno potrebbe obiettare: «Mica possiamo giudicare la fede di una persona!». Sono gli stessi che poi giudicano tutto il resto. Quelli dei valori non negoziabili… tranne uno: la fede. Pretendiamo di giudicare tutto della vita degli altri, ma ci riteniamo incapaci di giudicare la fede “nostra”. Riguardo ad essa scendiamo pure a compromessi. Sui privilegi no, sul moralismo no, sulle questioni che riguardano il sesso no. Ma sulla questione della fede, aggiustiamo, semplifichiamo, veniamoci incontro.
Più comodo guardare le cose degli altri, che la propria realtà. Più comodo rassegnarsi alle abitudini sterili, che affrontare nuove sfide. Più comodo far finta che tutti ci credano, che progettare percorsi di evangelizzazione. Più comodo tenere dentro i bambini, che suscitare scelte da adulti. Più comodo convincersi che l’importante è seminare, cioè fare qualcosa poi si vedrà, anziché verificare dove siano i frutti che il Signore, che ha già seminato a suo tempo, ci chiede di raccogliere oggi. Più comodo accontentare tutti, che porre domande faticose. Più comodo rivendicare autorità, che ferirsi nella testimonianza. Più comodo far finta di niente. Più comodo aggregare, semplificare, sminuire, banalizzare, rassegnarsi, fare finta, fare altro, piuttosto che affrontare la scomoda realtà.
Al popolo che ci interpella sulla fede, sembriamo sempre proporre altro. Per comodità. Amen.
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Tutto profondamente vero. Obiettare è mettersi sempre e comunque contro. Così facendo non facciamo altro che rendere non credibile ciò che pensiamo di trasmettere...