Di Francesco Occhetta
Quando si parla di riforma della giustizia vengono alla mente i versi di Dante nel canto X del Purgatorio: «Non v’accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla / che vola a la giustizia sanza schermi?». Questo «volare a la giustizia sanza schermi» che ispira le persone oneste è, però, diventata la pietra d’inciampo del sistema italiano. Lo sciopero dei magistrati lo testimonia, non era mai successo nella storia repubblicana. Eppure, la riforma Cartabia prevede l’aumento a trenta dei consiglieri del Consiglio superiore della magistratura (Csm), una nuova legge elettorale, novità nelle regole per arginare le correnti, l’incompatibilità tra politica-magistratura, la separazione delle funzioni e la riduzione dei fuori ruolo. Rimane un però: la credibilità della magistratura non può esaurirsi in una riforma, accelerata dagli scandali come quelli delle nomine pilotate ai vertici di alcuni uffici giudiziari e dalla perdita di fiducia dei cittadini.
«Nessuna riforma politica della giustizia può cambiare la vita di chi la amministra, se prima non si sceglie davanti alla propria coscienza “per chi”, “come” e “perché” fare giustizia. È una decisione della propria coscienza. Così insegnava santa Caterina da Siena, quando sosteneva che per riformare occorre prima riformare sé stessi». È ciò che ha affermato il Papa all’udienza con il Csm, lo scorso 8 aprile, quando li ha esortati contro «le lotte di potere, i clientelismi, le varie forme di corruzione, la negligenza e le ingiuste posizioni di rendita: questa problematica, queste situazioni brutte, voi le conoscete bene». Il segreto è quello di potare i rami secchi senza amputare l’albero della giustizia. Per il Papa «sono la credibilità della testimonianza, l’amore per la giustizia, l’autorevolezza, l’indipendenza dagli altri poteri costituiti e un leale pluralismo di posizioni gli antidoti per non far prevalere le influenze politiche, le inefficienze e le varie disonestà. Governare la magistratura secondo virtù», ha detto, «significa ritornare a essere presidio e sintesi alta dell’esercizio al quale siete stati chiamati».
È la Costituzione italiana ad affidare alla magistratura di amministrare la giustizia “in nome del popolo”. Il popolo chiede giustizia, e la giustizia ha bisogno di trasparenza e verità, fiducia e lealtà, purezza di intenti e bene comune: «Ascoltare, ancora oggi, il grido di chi non ha voce e subisce un’ingiustizia, vi aiuta a trasformare il potere ricevuto dall’Ordinamento in servizio a favore della dignità della persona umana e del bene comune». E ancora: «Nella tradizione la giustizia si definisce come la volontà di rendere a ciascuno secondo ciò che gli è dovuto». Ma oltre a «uguaglianza, giusta proporzione, imparzialità… secondo la Bibbia occorre anche amministrare con misericordia».
Il Papa, infine, chiede di guardare al sacrificio di Rosario Livatino, il primo magistrato Beato, che ispira a un’idea di giustizia e magistratura a cui tendere. «Nella dialettica tra rigore e coerenza da un lato, e umanità dall’altro», ha detto, «Livatino aveva delineato la sua idea di servizio nella magistratura pensando a donne e uomini capaci di camminare con la storia e nella società, all’interno della quale non soltanto i giudici, ma tutti gli agenti del patto sociale sono chiamati a svolgere la propria opera secondo giustizia. (…) Quando moriremo – sono le parole di Livatino – nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Per tutto questo è un dovere morale partecipare ai referendum sulla riforma della giustizia e scegliere secondo coscienza ciò che aiuta a rendere la magistratura non una casta ma un servizio da rendere a chi chiede giustizia.
Articolo pubblicato su Vita Pastorale di Giugno
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