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Intervista al pescatore Alessandro Grossi: “Una volta in mare ho perso la barca, ma ho guadagnato la vita”

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Dopo aver incontrato Carlo Di Domenico e Pietro Ricci, proseguiamo la nostra rubrica di interviste ai pescatori della Marineria di San Benedetto del Tronto con la testimonianza di Alessandro Grossi, un sambenedettese doc che svolge questa attività da ormai trent’anni.

 

Quando e come ha iniziato questo lavoro?
“Tutti i miei zii facevano i pescatori, ma mio padre era l’unico fratello a non svolgere un’attività in mare: lavorava, infatti, per le Ferrovie dello Stato. Quindi non c’è stata una vera e propria continuità nella discendenza. Inoltre, quando a quattordici anni, andai in mare per la prima volta, non fu affatto un’esperienza entusiasmante! I miei zii, all’epoca, andavano a pesca di gamberi rossi in Sicilia ed io una volta li accompagnai, ma mi resi subito conto di soffrire il mal di mare. Eppure, nonostante tutto, sentivo una specie di richiamo. Quando ero in barca, lontano dai rumori e dal caos, mi sentivo libero di pensare e riflettere e soprattutto riuscivo a leggere bene quello che sentivo dentro, una sensazione che non mi ha mai abbandonato e che ancora oggi continuo a provare. Quando si sta lontano dalla riva, infatti, si sente di più la mancanza di alcune persone e magari ci si rende conto di volere loro veramente bene. Si ha anche la possibilità di vedere con chiarezza quello che si vuole fare nella vita e quali siano le decisioni da prendere. Questa dimensione che si sperimenta in mare aperto, in cui il silenzio e la pace fanno vivere in un tempo che sembra sospeso, non sono mai riuscito a ritrovarla a terra! Perciò, nonostante le premesse, decisi che quello sarebbe stato il mio destino. Decisi di frequentare l’Ipsia ed ottenni il diploma di padrone marittimo. Nel frattempo anche mio fratello ottenne la qualifica di meccanico navale ed insieme nel 1994 acquistammo la barca che, per quasi vent’anni, è stata la nostra ragione di vita.”

Poi cosa è successo?
“Durante l’estate del 2013 abbiamo avuto un naufragio. Probabilmente, senza accorgercene, abbiamo urtato qualcosa che ha procurato un danno al nostro mezzo ed abbiamo iniziato ad imbarcare acqua. Nell’arco di un’ora e mezza abbiamo visto la barca riempirsi di acqua. Eravamo in quattro: appena ci siamo resi conto della situazione, io e mio fratello abbiamo subito messo in salvo sulle scialuppe i due marittimi che erano con noi, mentre noi abbiamo cercato di rigettare in mare, con l’aiuto della pompa di emergenza, l’acqua che continuava ad entrare. All’inizio non se ne parlava di scendere dalla barca: volevo salvarla a tutti i costi. Poi, ad un certo punto, mi sono visto il volto dei miei due figli piccoli e di mia moglie e mi sono reso conto che avrei voluto rivederli. Restare lì sarebbe stato rischiare di annegare insieme alla barca. Così, io e mio fratello ci siamo messi in salvo su un’altra scialuppa e, quando ci eravamo allontanati solo a pochi metri, dopo solo otto minuti, abbiamo visto la barca calare a picco e scomparire in mezzo alle acque. Abbiamo perso tutto. Il pescato di tre giorni, la barca su cui avevamo investito tempo, denaro e vita. Tutto è finito in mare insieme alla barca: i nostri sogni, il nostro futuro. In quei momenti fortunatamente sono riuscito a rimanere lucido, ma nei giorni successivi è stata veramente dura. Solo una cosa mi ha salvato: la fede.”

Cosa intende dire?
“Voglio dire che la fede mi ha fatto vedere le cose nella giusta prospettiva. Avevo perso la barca, ma non la vita. Negli anni precedenti avevo visto morire in mare alcuni miei amici, anche a pochi metri dalla costa, magari perché i loro sinistri erano avvenuti di notte, al buio, quando la visibilità era notevolmente ridotta ed i soccorsi non erano giunti in tempo, oppure in inverno, mentre indossavano abiti pesanti e, avendo battuto la testa durante l’incidente, avevano perso conoscenza e erano affogati. Io, invece, non ho avuto alcun danno alla mia salute e, sebbene l’incidente sia avvenuto a 60 Km dalla costa, fortunatamente era luglio, durante le prime ore del mattino, quando la luce e le condizioni atmosferiche hanno consentito alla guardia costiera di soccorrerci. Questa era – e resta ancora oggi – la cosa più importante.
La fede, inoltre, mi ha fatto anche apprezzare di più quanto di bello avevo nella mia vita. Quando le circostanze ci fanno perdere qualcosa, spesso capita che ci concentriamo su quello che non abbiamo più e non ci rendiamo conto, invece, di quello che ancora ci resta. Nel mio caso, oltre alla mia bella famiglia, ho gioito per la solidarietà che i miei amici pescatori mi hanno rivolto. Il porto spesso viene visto come un luogo crudo, forse poco raffinato – e questo in parte è vero – ma io, più che grezzo, lo definirei genuino. Qui , al di là dei modi, c’è molta generosità, molto affetto, molta condivisione di difficoltà e risoluzioni. Dopo l’incidente con la barca, visto che c’era il fermo biologico, per un mese sono stato senza lavorare; ma poi, quando è stato il momento di riprendere il lavoro, io e mio fratello ci sentivamo tristi, profondamente tristi. Grazie all’aiuto di alcuni pescatori, che conoscevano le nostre capacità e la nostra storia, un po’ alla volta, ci siamo rimessi in carreggiata ed abbiamo ripreso a lavorare regolarmente. Anche se non avevamo più una barca nostra, potevamo essere molto utili ad altre barche e altre persone. Per noi questo è stato un attestato di stima molto importante, soprattutto perché è arrivato in un momento per noi molto difficile a livello umano. Il mare ci ha tolto la barca, ma ci ha lasciato la vita e ci ha regalato delle amicizie sincere: questo è un vero tesoro!”

Dunque cosa fa lei oggi?
“Oggi sono comandante di una barca i cui armatori sono abruzzesi, di Martinsicuro, ed hanno già un lavoro a terra, quindi non vengono con noi in mare. Il personale di bordo è costituito da quattro persone: oltre a me, ci sono un motorista e due marinai. Ovviamente tutte le responsabilità sono mie, in quanto sono il comandante; però, con un equipaggio così modesto ed in tempi duri come quello che stiamo vivendo, i ruoli non sono così ben definiti e anche io mi adatto a svolgere i compiti da marinaio. Purtroppo il caro gasolio sta penalizzando parecchio la nostra categoria e, a causa di questo, non riusciamo a percepire una paga decente. Non arrivare neanche a 1. 000 euro di stipendio mensile per un lavoro sacrificato ed impegnativo come il nostro è un’indecenza. Nel nostro lavoro, infatti, il rischio è latente in ogni istante. Stiamo sempre in mare aperto, anche d’inverno, anche quando il freddo congela le mani, anche quando le condizioni atmosferiche sono avverse e la barca si muove tutta, anche quando lavoriamo per pochi spicci. Usciamo la domenica sera per andare in mare e, dopo un’oretta di navigazione, raggiungiamo la zona di pesca. Ogni due ore bisogna calare la rete fino a farle toccare il fondale. Quando la tiriamo su, selezioniamo il pesce, lo sistemiamo nelle varie cassette e lo riponiamo in ghiacciaia. Compiute queste operazioni, tra una calata e l’altra, ci resta una mezz’oretta di tempo in cui possiamo mangiare, chiacchierare o sonnecchiare. In questo momento particolarmente difficile, stiamo cercando di accordarci tra noi pescatori in merito ai giorni in cui andiamo in mare, così da non ritrovarci tutti affollati negli stessi posti. Ovviamente il lunedì andiamo tutti perché il mercato è asciutto e c’è anche maggiore richiesta; durante la settimana, invece, ci dividiamo i giorni. Infatti, nonostante rispetto al passato le imbarcazioni della Marina Sambenedettese siano diminuite, attualmente ci sono comunque 37 barche da strascico e circa 15 tra volanti e lampare. Un numero importante e difficile da gestire in questo particolare periodo.”

Come vede il suo futuro lavorativo? Cosa si aspetta?
“Il momento è difficile e nessuno di noi può fare previsioni. Tuttavia, nonostante le preoccupazioni, io sono sereno. Le mie esperienze di vita e da ultimo anche la pandemia, mi ha ricordato che nella vita tutto può succedere e che i nostri programmi sono importanti fin tanto che ci consentono di organizzare al meglio i nostri progetti, ma non sempre è possibile poi rispettarli o realizzarli. Perciò, in questo particolare momento, che mette tutti a dura prova da molti punti di vista, è molto importante per le famiglie avere dei punti di riferimento saldi e fermi. Per me l’ancora che mi tiene sempre legato alla mia fede è la parrocchia di San Filippo Neri. Quando ero piccolo, frequentavo il catechismo nella parrocchia di Cristo Re, dove abitavo, e facevo spesso il chierichetto. Nel frattempo, da quando mi sono sposato, quindi da vent’anni, frequento questa comunità. Qui tre anni fa ho avuto il piacere di incontrare di nuovo don Gianni Croci e, grazie alla sua coinvolgente presenza e alla proposta dei coniugi Emanuela e Carlo, sono entrato, insieme a mia moglie, a far parte dell’Equipe 15 di Notre Dame. È un’esperienza bellissima: durante gli incontri con altre coppie del gruppo, ti metti a nudo, a volte con imbarazzo e difficoltà, però puoi stare certo che resta tutto lì dentro, nella massima riservatezza. Nel tempo si è creata una forte amicizia tra noi, un legame che aiuta ciascuno di noi a crescere come persona, come coppia e anche come comunità. È una vera grazia che il Signore ci ha concesso di vivere e per a quale gli sono grato. Inoltre, anche nel contesto del mio lavoro, ho chi quotidianamente mi ricorda di camminare insieme al Signore: parlo di don Giuseppe Giudici, che sta facendo una grande opera tra noi pescatori. Evangelizzare al porto non è facilissimo, ma insieme ci stiamo riuscendo. Io credo che più che la parola sia l’esempio a trascinare. Io sono un semplice pescatore e, come molti altri miei colleghi, non ho frequentato le ‘scuole alte’; quindi più che parlare e raccontare la Lieta Novella di Gesù Risorto preferisco dare testimonianza attraverso la mia vita. Mi spiego meglio: anziché ripetere in continuazione quanto sia importante andare a Messa la domenica, preferisco partecipare alla liturgia eucaristica senza aggiungere altro: il resto lo fa il Signore! Quando torno dai miei colleghi sono sereno e carico. E loro lo vedono! La Messa, infatti, mi rimette in sesto: ascoltando le letture e l’omelia, trovo sempre qualcosa che si adatti alla mia vita, riesco quindi a leggere la mia storia in una prospettiva diversa e a rintracciare in essa un senso profondo, oltre a trovare parole di speranza che mi motivano ad andare avanti con coraggio ed entusiasmo nei giorni successivi. Lo stesso effetto me lo fa la preghiera che, anche se non so per quale motivo, mi dà una carica incredibile. Quando gli altri mi vedono, capiscono sempre se sono stato a Messa o no, se ho pregato o no! Ecco allora che non occorre fare tanti giri di parole: il modo in cui ci comportiamo parla per noi e fa capire a tutti se nella nostra vita abbiamo incontrato il Signore oppure no.”