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L’uomo ha bisogno di relazione, prima fra tutte della relazione con Dio

Giovanni M. Capetta

“A te grido, Signore, mia roccia” (v. 1), con questa invocazione dal profondo esordisce il Salmo 28 e come non andare con la mente alla tragedia della Marmolada, dove anche il ghiaccio millenario della montagna si è sbriciolato, seminando morti inconsapevoli e sconcertanti! Davvero Tu solo, o Signore, sei la nostra roccia e null’altro è saldo e sicuro quanto te! Ma poi la preghiera continua: “con me non tacere: se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa” (v 2.). Più ancora della saldezza fisica, l’uomo, capace anche di vivere in equilibrio su un filo teso sopra il baratro dell’infinito, è – però – animale sociale per eccellenza e ha bisogno di relazione, prima fra tutte della relazione con Dio; anche quando la sua mente non chiama per nome questo Altro, il cuore gli dice che è un Tu quello che cerca e che, senza la sua Parola, egli è come un morto, come un dead man walking che, nel braccio della morte di un qualunque carcere statunitense, si avvicina alla sedia elettrica che porrà fine alla sua vita. “Ascolta la voce della mia supplica, quando a te grido aiuto, quando alzo le mie mani verso il tuo santo tempio” (v. 2). “Le mani alzate verso Te”, come recita un noto canto che ancora risuona nelle chiese di campagna: è il segno per eccellenza dell’abbandono di chi prega al suo Signore, verso il Tempio, la casa di Dio. La preghiera prosegue con la richiesta di non essere accomunato fra i malvagi. Come spesso abbiamo imparato a leggere, la preghiera salmodica si rivolge al Padre, proprio come se si trattasse di una figura umana, con una reciprocità paritetica. Quando l’orante chiede a Dio di non abbandonarlo, in realtà sa che è lui spesso ad allontanarsi dalle vie del Signore; quando gli domanda di non annoverarlo fra chi sbaglia, in verità gli chiede la forza e la Grazia per non sviare dai suoi comandi: “Non trascinarmi via con malvagi e malfattori, che parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore”. Subentra la categoria della coerenza. Non quella supponente di chi reputa di non sbagliare mai, ma anzi: quella di chi sa di essere fragile e che cadrà più e più volte, ma proprio per questo non monta in superbia, non suppone di essere nel giusto per il solo fatto che conosce la Legge e i comandamenti, in particolare non è “doppio”, non parla di pace, ma cova rancore; non si presenta come integerrimo, ma ha pensieri torbidi e violenti nel cuore. È di fronte a questo atteggiamento, a questo peccato (mai violento con il singolo peccatore!) che anche Gesù si scaglia: basti ricordare le sue parole ai farisei, “sepolcri imbiancati”, o quando dice “Nel giorno del giudizio gli uomini dovranno rendere conto di ogni parola vana” (Mt 12, 36). Un’ammonizione forte e pensiamo a come si potrebbe riportare in ogni famiglia: quante volte un padre o una madre arrivano a denigrare o persino insultare un figlio perché non ha svolto un compito secondo il loro volere, o anche solo non ha corrisposto alle loro, forse pur legittime aspettative? Eppure anche dire “stupido” o “pazzo” per Gesù è una forma di omicidio e così sarà oggetto di giudizio severo aver detto parole “vane”, ovvero non suffragate dai fatti e, per esempio, nel caso dei genitori ai figli, non sostenute da un esempio che rafforzi, anzi renda vero quel consiglio, quel suggerimento e tanto più quel comando.

Nella seconda parte del Salmo chi prega ha evidentemente ottenuto la Grazia che sperava: “Sia benedetto il Signore, che ha dato ascolto alla voce della mia supplica” (v. 7) E quando ciò non succede? Quante volte ci pare di aver pregato con trasparente semplicità e dal profondo del cuore, eppure non ci pare di essere esauditi? Un papà, una mamma, o un figlio gravemente malati… paiono non bastare l’amore dei loro cari, l’affetto e le suppliche dei tanti amici. Forse che preghiamo male o non a sufficienza? Forse che Dio, lento all’ira” e però anche assai lento nell’ascoltarci? Quasi che si compiacesse di non fare più miracoli così come Gesù ha fatto per le strade durante la sua vita? No, è chiaro che dobbiamo cambiare prospettiva: dopo la morte e la resurrezione del Figlio, non possiamo più aspettarci una salvezza che non passi attraverso la Croce: la croce di Cristo che si innesta nella nostra, quotidiana o finale che sia. Signore dacci, allora, occhi e cuore per credere che Tu sei con noi sempre, anche nella prova più dura e che nulla può separarci da te come anche Paolo scrive in modo mirabile. Allora anche noi ogni giorno potremo cantare: “Il Signore è mia forza e mio scudo, in lui ha confidato il mio cuore. Mi ha dato aiuto: esulta il mio cuore, con il mio canto voglio rendergli grazie”. E ancora una volta, la preghiera, dopo l’esperienza intima e personale si allarga e può essere condivisa da tutti. Immagino un passaparola che dal marito è trasmessa alla moglie e da loro ai figli, ai nonni e alle altre famiglie, fino ad allargare il cerchio d’onda della “buona notizia” a tutta l’assemblea, la famiglia di famiglie che continuamente desideriamo essere: “Forza è il Signore per il suo popolo, rifugio di salvezza per il suo consacrato. Salva il tuo popolo e benedici la tua eredità, sii loro pastore e sostegno per sempre”. (vv. 8-9). Bello quando il canto del solista lascia spazio al coro, quando la gioia si diffonde, quando scopriamo, anche attraverso i volti sorridenti gli uni degli altri, che non siamo soli, che aggrappati alla roccia che Lui solo è, possiamo continuare a camminare insieme e sperare nella Resurrezione che Gesù ha vissuto e ha promesso a tutti, vincendo la morte per sempre.

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