Giovanni M. Capetta
Davvero ogni salmo è una straordinaria e profonda esperienza di umanità! Nel Salmo 30 leggiamo le parole di un uomo che ha appena superato una prova durissima: a chi di noi non è mai capitato o capiterà, almeno una volta nella vita!? “Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato […] Signore, mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa” (vv. 2-4). Dopo un grande spavento per un pericolo scampato, dopo una grave malattia, chi non si scioglie in un canto di gioia, che può divenire di lode, se appena ci apriamo ad una dimensione di gratitudine, che non affidi tutto al caso o al destino, ma all’amore provvidente di un Padre che non ci abbandona mai, anche quando ci è parso di essere rimasti soli? E si può scendere nella fossa e negli inferi non solo per una sofferenza fisica: il salmista usa un’espressione che ben può adattarsi alla depressione psichica che evidentemente non appartiene solo ai nostri giorni, ma lambisce da sempre l’animo umano! Sembra di sentire questo respiro nuovo di chi apre di nuovo il petto e le spalle e col suo stesso corpo esprime la liberazione da un peso che lo soffocava. La preghiera, come abbiamo letto già più volte, da individuale diviene corale e il salmista si rivolge ai suoi cari, ai fedeli, cioè gli “amici” del Signore: quanto è importante condividere in una rete di relazioni significative la propria esperienza spirituale! “Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, della sua santità celebrate il ricordo, perché la sua collera dura un istante, la sua bontà per tutta la vita”. Se anche utilizzassimo queste categorie dell’Antico Testamento, come se le nostre sventure dipendessero dall’ira o dalla bontà di Dio – ma quante volte siamo ancora tentati di pensarla esattamente così? – ci è suggerito di cogliere la sproporzione fra severità e misericordia, proprio come quella di un padre che sgrida, ma è subito pronto ad abbracciarci e a chiederci di ricominciare dandoci tutta la sua fiducia.
“A te grido, Signore, al Signore chiedo pietà: quale guadagno dalla mia morte, dalla mia discesa nella fossa? Potrà ringraziarti la polvere e proclamare la tua fedeltà? Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore, vieni in mio aiuto!” (vv. 9-11). Questa è fiducia! Questo è mettersi umilmente nelle mani di Chi può salvarci ed è quasi come se l’orante ricattasse Dio, dicendogli che i morti non potranno mai ringraziarlo e per questo ci tenga in vita. “Hai mutato il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia, perché ti canti il mio cuore, senza tacere; Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre” (vv. 12-13). Nell’altalena della vita (un’immagine di Monsignor Ravasi) gli uomini potrebbero perdere la loro fede e sentirsi in balia delle onde, a volte favorevoli a volte avverse, ma non così il credente che riconosce di essere passato dall’afflizione alla gioia della danza e del canto e questo per un ringraziamento senza fine. Il Salmo 30 è, allora, un tripudio di speranza per tutti, è un inno che può far proprio l’umanità intera e tutta la Chiesa, che in quanto Corpo di Cristo compie misticamente questo passaggio dalla morte alla vita nuova, esattamente come Gesù che, dalla Croce, è sceso agli Inferi è ha assunto davvero tutte “le tristezze e le angosce degli uomini” (l’indelebile espressione iniziale del Proemio della Costituzione Pastorale Gaudium et spes frutto del Concilio Vaticano II) e le ha trasformate, per sempre, attraverso la sua Resurrezione.