(da Rimini) In Medio Oriente e in Terra Santa “non si potranno superare gli ostacoli odierni nel cammino di riconciliazione, né progettare un futuro sereno, se non si avrà il coraggio di purificare la propria lettura della storia dall’enorme bagaglio di dolore e ingiustizie che ancora condizionano pesantemente il presente e le scelte che spesso oggi si compiono. Non si tratta di dimenticare, certamente. Sarà tuttavia assai arduo costruire un futuro sereno se si pone alla base della propria identità personale, sociale e nazionale ‘l’essere vittima’, anziché fondare le proprie prospettive su una comune speranza. Il perdono è un ingrediente necessario per superare questa impasse”. Ne è convinto il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, che sabato è intervenuto alla sessione inaugurale del 43° Meeting di Rimini (20-25 agosto), quest’anno sul tema “Una passione per l’uomo”.
Per Pizzaballa “non ci può essere alcuna purificazione delle relazioni, se non si ha il coraggio di parlare di perdono, di iniziare percorsi di riconciliazione, non solo a livello di piccole nicchie, di gruppi, ma in un contesto più generale, sia politico che religioso”. Il patriarca ha spiegato che nel contesto politico israelo-palestinese, caratterizzato da una “mancanza di fiducia che accomuna tutti, israeliani e palestinesi”, il perdono è inteso come sinonimo di “rinuncia alla difesa dei propri diritti. Le varie matrici culturali e religiose locali hanno un influsso enorme su questo tema. Ebraismo, Islam e cristianesimo hanno un approccio molto diverso all’esperienza del perdono, che viene spesso inteso un po’ da tutti come sinonimo di debolezza”. Pizzaballa ha ribadito che “parlare di perdono è necessario, pur cosciente che è necessario allo stesso tempo anche ascoltare e dare voce a quella resistenza al perdono. Una conciliazione e una sintesi difficile e sempre dolorosa, che non sempre funziona”. Il tutto “senza avere la pretesa di imporre soluzioni” e nella consapevolezza che “impegnarsi per la giustizia e la pace, insieme al perdono, non è cosa che suscita immediata comprensione. Non credo sia possibile impegnarsi veramente e da credente per la giustizia e per la pace, e contemporaneamente essere acclamato”.
Ritorna così “la drammatica scelta che s’impone al popolo tra Gesù e Barabba, morire sulla croce o combattere?”. “Barabba era un attivista, come si direbbe oggi: lottava per la liberazione del suo popolo. Aveva un suo seguito, voleva giustizia, libertà, dignità per il suo popolo: il suo era un messianismo semplice, concreto, attraente e niente affatto utopico. Dall’altra parte c’era Gesù”. “Scegliere Cristo – ha sostenuto il patriarca latino – non è scegliere l’indifferenza al male del mondo. C’è la mentalità di Barabba, l’integralismo di chi vuol fare una sorta di nuove crociate, ma c’è anche l’indifferenza di un cristianesimo disincarnato. Eppure, in fin dei conti, il cristiano ha scelto Cristo, e questi è morto in croce, fallito e sconfitto. Dal punto di vista strettamente umano, non c’è alcun dubbio che il perdono assomigli ad una sconfitta. Gesù non ha risolto nessuno dei problemi sociali e politici del suo tempo. Gesù non ha liberato l’uomo da questa o quella oppressione umana. Non ha operato una liberazione, ma la liberazione. Ha ricuperato nella sua radice profonda la relazione tra Dio e l’uomo e degli uomini tra loro”.
Per Pizzaballa è chiaro che “Gesù non deve prendere il volto di Barabba: nella Chiesa, la giustizia non deve diventare giustizialismo, la trasparenza non deve tramutarsi in gogna, la giustizia della Croce non può annacquarsi nella giustizia mondana. Per l’una e l’altra parte del conflitto ho il dovere di testimoniare la partecipazione della mia comunità ai drammi e alle speranze dei due popoli. Devono poter contare sul fatto che un cristiano non è mai passivo, indifferente, rassegnato. La nostra vocazione è evitare che il conflitto entri nel cuore delle persone, bruci la loro fede e speranza, e diventi un modo di pensare. Negare l’uno l’esistenza dell’altro, o avere paura l’uno dell’altro, rifiutare l’altro, anzi sapere che c’è ma rifiutarlo: per il cristiano non dovrebbe essere così. Stare a Gerusalemme per un cristiano vuol dire anche ‘stare sulla croce’. E questo significa non solo fare proprio il dolore degli altri, ma imparare a perdonare, come Gesù ha perdonato il ladrone pentito sulla croce”.
Stare sulla croce come la piccola comunità cristiana di Gaza “la cui vita ruota tutta attorno alla Chiesa. Non ho sentito – ha concluso Pizzaballa – in tante visite a quella comunità, una sola parola di rancore nei confronti di alcuno. Al contrario, più volte hanno espresso la loro attenzione a non permettere che il loro cuore si inaridisca in sentimenti di odio, di ribellione, di rabbia. È lo stile di una comunità ecclesiale che non è ripiegata su se stessa e che ha il coraggio di scommettere sul futuro insieme”.