Di Don Vincenzo Catani
CASTIGNANO – Non nascondo che a me è sempre piaciuto distribuire la comunione eucaristica deponendo con delicatezza la piccola ostia sulle mani dei fedeli. A volte, ai più restii verso questo gesto, insisto perché lo compiano (con piena libertà). Non è una questione di sola igiene, ma si tratta di afferrare il significato interiore di quel gesto di accoglienza: sulle mani concave poste a mo’ di culla e soprattutto su quelle mani messe in croce mi piace deporre la presenza sacramentale di Cristo Signore, perché nasca ancora come a Betlemme dentro di noi e perché venga ad insegnarci l’abbandono al Padre nel dolore quotidiano.
Ma ora aggiungo una notizia: nel carcere di Opera, alle porte di Milano, dal 2016 un gruppo di detenuti producono le ostie che verranno poi consacrate nelle messe. E non solo a Milano, ma questa iniziativa si è diffusa anche in altre parti d’Italia e del mondo, per cui finora sono state regalate più di 4 milioni di ostie a 500 chiese sparse nel mondo che le utilizzano quotidianamente per la celebrazione delle messe.
Mi commuovono questi “laboratori eucaristici” e mi piacerebbe fare la comunione con quelle significative ostie, perché preparate da fratelli e sorelle che sono segnati da diverse esperienze di fragilità e che si trovano dentro un percorso di reinserimento sociale.
E Cristo Gesù fa uso delle loro mani e delle loro storie di sofferenza e si serve di quel loro pane per fare ancora “eucaristia” con noi, per rendere lode e gloria al Padre, per celebrare la vittoria sulla morte, per annunziare la risurrezione sua e nostra, per farci profumare tutti di vittoria sul male, anche noi che, come i detenuti di Opera, portiamo ferite interiori a volte più gravi delle loro.
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