Stefano De Martis
“Oggi vanno evitati errori che rischiano non solo di utilizzare in maniera non efficace le risorse ma di compromettere l’idea stessa di lotta alla povertà, riconsegnando alla sfiducia, all’incredulità e alla diffidenza questo tema”. Lo affermava la Caritas nell’ottobre del 2018, in occasione della presentazione del suo rapporto annuale. Il Reddito di cittadinanza sarebbe nato di lì a pochi mesi e adesso quelle parole suonano amaramente profetiche. Non in virtù di qualche ineffabile capacità divinatoria, ma grazie alla conoscenza concreta e operosa della società italiana in genere e delle persone povere in particolare, della loro realtà effettiva, dei loro problemi reali. Allora molte voci della società civile si erano levate per cercare di scongiurare una pericolosa confusione tra lotta alla povertà e politiche attive del lavoro, filoni che hanno evidenti aspetti in comune ma che non possono essere sovrapposti semplicisticamente. In Italia c’era già il Reddito d’inclusione, risultato di una lunga sperimentazione e di un confronto, tutto sommato proficuo, tra la politica e la società civile. Sarebbe stato fisiologico ripartire da questo livello, affinando ulteriormente il meccanismo sulla base dell’esperienza compiuta e potendo finalmente contare su una dotazione finanziaria congrua (di questo va dato atto: la scarsità di risorse era stata il vero tallone d’Achille del Rei). Ma le elezioni europee erano dietro l’angolo e bisognava fare presto. Non solo. Bisognava evitare che la nuova misura potesse essere presentata come uno sviluppo di quella esistente, era necessario marcare una chiara discontinuità. Le voci della società civile servirono almeno a correggere alcuni aspetti macroscopici: la differenziazione tra i due percorsi del Patto per il lavoro e il Patto per l’inclusione è frutto soprattutto di questo apporto.
Il rischio da evitare oggi è che si compiano scelte viziate dagli stessi errori del 2018, anche se con esiti speculari. Si ripresentano la volontà di dare rapidamente un segnale politico, anche a costo di bruciare le tappe, e il bisogno di mostrare agli elettori che si volta pagina, senza soppesare adeguatamente le conseguenze in termini sociali. La sfasatura temporale tra la politica e la società si mostra in questa fase con un doppio volto: in certi casi le risposte istituzionali ai problemi si rivelano lente, tardive, farraginose; in altri appaiono persino frettolose e improvvisate, come se i processi sociali profondi avessero la stessa volatilità che ha assunto ormai da anni il consenso elettorale. Che il Reddito di cittadinanza avesse bisogno di una messa a punto non marginale – anche a causa dei suoi peccati d’origine – era ed è opinione largamente diffusa, ma non si può onestamente negare che abbia comunque svolto una funzione di grande importanza in uno dei frangenti più difficili della vita del Paese. La sua revisione, così come il parallelo rilancio delle politiche attive del lavoro, sono questioni da maneggiare con cura e soprattutto senza forzature ideologiche.
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