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Il dramma dello studente morto la notte prima della laurea

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Giovanna Pasqualin Traversa

Potrebbe essere l’ultimo di una serie di casi analoghi legati all’incapacità di tollerare i fallimenti in una società che spinge ad essere sempre vincenti e porta a costruirsi immagini di sé non realistiche e irraggiungibili. Riccardo Faggin, studente 26enne di Scienze infermieristiche a Padova, è morto nello schianto della sua auto finita fuori strada la notte precedente alla sua laurea. Tutto era pronto per la festa in famiglia, ma il ragazzo in realtà non avrebbe potuto discutere la propria tesi; anzi era anche indietro con gli esami, ha fatto sapere dopo la tragedia l’Università. Mentre è al vaglio degli inquirenti l’ipotesi di suicidio, i suoi genitori sono travolti dal dolore e tormentati dal senso di colpa per non essere stati in grado di capire il malessere del figlio e forse averlo “pressato” troppo.

“Ma a volte non è facile capire che cosa stia vivendo un figlio senza farsi ingannare da ciò che sembra”,

dice al Sir Michela Pensavalli, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice dell’Itci (Istituto di terapia cognitivo intrapersonale), alla quale abbiamo chiesto di aiutarci a capire che cosa possa avere provocato questa tragedia familiare.

Dottoressa, come può accadere un evento del genere?
Nel mio lavoro mi capita spesso di imbattermi in quelle che definiamo “sindromi del bluff”: ragazzi che vanno avanti costruendo una narrazione di sé che non corrisponde a quella della vita reale fino a trovarsi strangolati all’interno di questa rappresentazione perfezionistica, al di sopra delle loro possibilità, travolti da questo ingorgo emotivo. Possiamo intuire il carico di profonda sofferenza di questo ragazzo che magari avrà dovuto mentire per molto tempo e che, avvicinandosi al “momento della verità”, ha probabilmente sentito il bisogno di compiere un gesto estremo. Immagino anche un tema di dissociazione:

si va avanti secondo uno schema preimpostato che stabilisce un susseguirsi di tappe, magari corrispondenti alle aspettative della famiglia e di una società che si attende il conseguimento incessante di obiettivi, mentre la vita reale frana sotto i piedi.

Quanto influisce la nostra cultura narcisistica, esasperata anche dalla pervasività dei social?
Nelle relazioni tecno-mediate, più i ragazzi hanno possibilità di “truccare” aspetti della propria realtà attraverso il “camuffamento” consentito dalla rete, più viene loro facile cadere in queste forme dissociative sebbene non strettamente intese come patologia, ma come stile di approccio alla realtà. Quando non c’è possibilità di adeguarsi al sé idealizzato, creato sulla scorta degli standard di riferimento della rete, nasce il parallelismo del bluff psicologico: si costruisce una auto-narrazione alternativa che diviene stringente e conduce inevitabilmente alla perdita di controllo.

Oltre al dolore devastante di chi perde un figlio, i genitori parlano di senso di colpa per aver esercitato forse eccessive pressioni su di lui…
Colpisce in questa vicenda, come in altre analoghe, questa successiva presa di coscienza.

Genitori che, pur straziati dal dolore, trasmettono coraggiosamente un messaggio di raccomandazione e di prudenza nel sollecitare eccessivamente i figli sul piano prestazionale.

Il senso di colpa potrebbe svelare la difficoltà di sintonizzazione sul tema di vita autentica del proprio figlio. Un po’ perché oggi è sempre più consentito nascondersi e spesso i genitori si fermano al “sé” di facciata, sdoganata attraverso post, foto, stati sui social che non lascia trapelare fragilità, imperfezioni e fallimenti. Inoltre, nella società il conflitto con i figli è diventato un tabù, si cerca l’approvazione ma difficilmente si apre un contradditorio, per stanchezza, per bisogno di tacere errori e fallimenti che sono in primis di noi adulti. Piuttosto che rischiare di mandare in pezzi la propria missione educativa, si tende ad ammortizzare eventuali note stonate ed elementi difformi percepiti, e a raccontarsi una rappresentazione più “comoda” che però non coglie l’autentico vissuto emotivo dei figli. In fondo il vissuto di sofferenza pervasiva appartiene innanzitutto a noi genitori prima che ai nostri ragazzi.

In questa vicenda si raccontava anche la difficoltà del post pandemia…
Dopo un lungo periodo di reclusione, precarietà, incertezza, la riapertura disorienta i ragazzi. Nella mia professione vedo sempre più giovani che soffrono di ansia legata al rientro in classe e all’esposizione in pubblico, al confronto sociale. Una vera sindrome di ansia da confronto. Come docente universitaria constato la preferenza degli studenti per la discussione della tesi online – ora non più prevista – mentre la discussione in presenza genera ansie macroscopiche rispetto al pre-pandemia: ci siamo disabituati ad esprimere “realmente” parti di noi.

Quali sono i campanelli d’allarme cui prestare attenzione per tentare di prevenire altre tragedie come questa?
I genitori dovrebbero anzitutto osservare movimenti e gesti della vita quotidiana, relazionale ed emotiva dei propri figli: il profondo delle loro relazioni interpersonali è uno scrigno di preziose informazioni. Ne va compresa la buona “funzionalità” così come pure sul piano degli impegni, la capacità di mantenere fede a quelli presi senza esagerare e strafare per apparire perfetti. E’ bene non intrudere nella vita dei figli, ma compartecipare senza invadenza. Le dinamiche relazionali che vivono con i docenti, con i pari, con l’allenatore sportivo, con i compagni di squadra, e il buon “funzionamento” di vita sono una grande cartina di tornasole. Nei casi di depressione i ragazzi mostrano invece scarso appetito, deperimento di peso, cambiamento della forma fisica, scarsa voglia di fare le cose che si facevano prima, poca propensione alle relazioni. E poi il conflitto: un conflitto sano, benefico, costruttivo, è un altro elemento di veridicità nell’osservazione. I genitori devono saper essere “scomodi” con i figli, e i figli “scomodi” con i genitori per un dialogo e confronto reale.

Qual è, in generale, la responsabilità di una società che spinge sempre al massimo, ad essere super-performanti, non ammette il fallimento e lascia indietro i più fragili?
Questa società non consente ai ragazzi di accettare il fallimento e viverlo come prova di crescita; ma inseguire un’illusoria perfezione con l’idea di dover essere sempre vincenti non porta ad una vera evoluzione.

Occorre insegnare ai giovani l’importanza dell’impegnarsi ma anche la capacità di accettare i propri limiti e fallimenti comprendendone i motivi e imparando da essi.