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Afghanistan. Il sogno e il matrimonio

Herat, matrimonio (Foto Gholam Najafi)

Gholam Najafi

L’ho raccontato a tanti, ma non avevo mai preso così seriamente a cuore il tema del carcere. Questa notte ho fatto un sogno che mi ha fatto rivivere un pezzo del mio passato: mi trovavo in un carcere iraniano, quello descritto nel mio primo libro ‘Il mio Afghanistan’, c’erano tantissime persone, io dormivo fra due detenuti, ma non avevo spazio a disposizione, chiedevo agli altri se mi potevano lasciare un po’ di posto per riposarmi, mi hanno detto tutti no. Allora mi sono alzato e sono andato a chiedere al capo del carcere se potevo almeno avere un quaderno e una penna per poter scrivere i miei ricordi. Ancora un ‘no’ in risposta. Ho sempre desiderato tenere un diario, anche se in quegli anni io ero analfabeta. Ora, nel sogno, ecco giungere la possibilità di scrivere trovando per caso in tasca un mio vecchio quaderno con una penna. Ricordo che tenevo questi pensieri raccolti sotto la coperta, al buio. Memorie importanti da far rivivere un giorno, per fissare momenti così come faccio oggi con le mie fotografie e i miei versi.

Herat, matrimonio (foto Gholam Najafi)

Nei giorni scorsi sono stato invitato ad un matrimonio alla estrema periferia di Herat, quasi in campagna, dove non avevo mai messo piede. È la stagione del cavolfiore, 10 centesimi afghani al chilo. Ammiravo, durante il viaggio, questa terra fertile anche nel suo momento più difficile, questi campi arati, fino a quando sono giunto alla casa della sposa. Qui ho potuto seguire alcuni balli di giovani donne intorno alla sposa. Prima del pranzo sono andato a casa di alcuni contadini per ascoltare i loro racconti e chiedere notizie sui costi e sulle procedure per la produzione del latte, dello yogurt, del formaggio, burro, carne, legna, su quanti metri deve essere il pozzo per l’acqua; della loro vita insomma. A soli sei metri di profondità sembra si arrivi al mare. Per quante stagioni ricrescono le erbe del trifoglio che una volta noi raccoglievamo nei villaggi di Ghazni? Là erano due, qui la produzione viene moltiplicata per dieci volte. Mi hanno offerto il tè mentre mi raccontavano le loro storie. Li ascoltavo mentre dalle loro mani i piatti prendevano forma e gusto. Un evento mirabile. Pensavo che se non ci fossero i contadini e gli artigiani saremmo tutti nutriti dalle macchine. Mentre tornavo a casa della sposa per la festa guardavo tutta la terra arata, attraversata dalla strada di ritorno. Davanti la casa, priva di molte stanze, in attesa c’erano invitati. Si lavavano le mani come una volta intorno al pozzo poi entravano a mangiare la carne fresca della pecora. Sono rimasto a lungo a guardare e a fotografare la stalla con le mucche e i pollai pieni di galline. Ai margini dei prati c’erano le arnie delle api che volavano di qua e di là, alla fine della stagione. Tornavano tutti i miei ricordi. Tra i tanti presenti ero l’unico a fotografare e ad apprezzare questi cambiamenti. Il padre della sposa faceva ritorno a casa con un velo di tristezza, e noi con lui, perché sapeva che l’avrebbe trovata vuota. Il suo pensiero era per la gioia dei suoceri che avevano una sposa in casa.

Herat, campi agricoli (Foto Gholam Najafi)

C’è un proverbio afghano che dice: “O tomba o divertimento”. Durante le battaglie tutti lottano ma si divertono solo i sopravvissuti. Durante il matrimonio tutti avevano ballato e mangiato, uomini, donne e fanciulli. Sparpagliati in mezzo alla campagna per vedere il tramonto: qualcuno tornava di nuovo a bere il tè e un altro correva al ruscello, che qui chiamano mare, ma il mare non c’è. Correvano fra le terre arate in vista della primavera e poi, alla sera, il ritorno verso casa. La festa è finita. Tra due settimane questi miei giorni in Afghanistan saranno il passato, andrò in Iran. Se molti anni fa vi vivevo da clandestino, questa volta vengo da poeta che cerca i suoi vecchi dolori a Teheran, nel profondo del cuore. Non dobbiamo perdere le ore a piangere, è questa la vita ed è questa la strada che si divide: molti di noi afghani siamo in cammino verso l’Esilio. Se la fuga voi la chiamate fortuna, io spero che tutti abbiano una via di fuga per vedere altre terre.

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