DIOCESI – Ricordo un tempo molto lontano in cui, verso la fine di novembre di ogni anno, iniziavo a chiedere ai miei genitori: “Cosa mi regalate per Natale?” E ricordo, con altrettanta nitidezza, che mia madre mi rispondeva sempre: “Il verbo giusto del Natale non è ricevere, bensì dare. Quindi non chiedere le cose che vuoi avere, bensì pensa alle cose che hai e decidi quali vuoi regalare. È questo il senso del Natale, altrimenti vuol dire che non ti ho insegnato niente”. All’epoca, la bambina che ero, non gradiva affatto quella risposta! Oggi, che sono madre, ne capisco l’alto valore in termini di educazione e di ricchezza spirituale.
Ecco allora che, in questo tempo di Avvento, vogliamo raccontare l’esperienza di chi vive concretamente nella sua vita l’azione del dare: certamente dare denaro, cibo o vestiti, ma soprattutto dare servizio, dare tempo ed attenzione al fratello. Oggi, in particolare, riportiamo l’esperienza di Martina Ioime, giovane trentenne sambenedettese, laureanda in Psicologia, che ci racconta la sua ultima esperienza di carità internazionale a cui ha partecipato lo scorso ottobre.
In cosa consiste il progetto Remap e come è nata in te l’idea di aderirvi?
Si tratta di un progetto di volontariato internazionale promosso da Caritas Marche in collaborazione con Missio e Migrantes, a sostegno dei progetti di Caritas Italiana per far fronte alla situazione lungo la Rotta Balcanica. Già da tempo sono impegnata in Caritas Diocesana con numerosi progetti e questa opportunità mi è sembrata la naturale prosecuzione delle esperienze che ho già vissuto. Inoltre ritengo importante conoscere la reale situazione e le condizioni di chi percorre la Rotta Balcanica, poiché da un po’ di tempo i riflettori su questa emergenza si sono spenti. È importante sensibilizzare le persone su questo argomento e capire di cosa stiamo parlando. Si tratta di un percorso che ogni anno migliaia di persone compiono per entrare in Europa: i migranti provenienti da varie parti del mondo, la maggior parte dal Medio Oriente, approdano tutti in Grecia, da qui risalgono la penisola balcanica fino ad arrivare nei paesi dell’Europa occidentale. Dal 2017, ovvero da quando diversi paesi dei Balcani hanno cominciato a chiudere le frontiere, la rotta si è modificata deviando sulla Bosnia-Erzegovina. Questa deviazione è un problema perché la Bosnia-Erzegovina tuttora risente delle conseguenze della guerra combattuta nei primi anni ‘90. Permangono tensioni sociali tra i vari gruppi etnico-religiosi dello stato: i bosgnacchi, i serbo-bosniaci e i croato-bosniaci. La conflittualità tra questi gruppi, si manifesta anche nel sistema dell’accoglienza: l’ondata migratoria si è quindi riversata su un sistema di per sé fragile e strutturalmente incapace di sostenere un’accoglienza su larga scala.
Dove sei stata destinata?
Sono andata ad Usivak, un paese della Bosnia Erzegovina, a pochi kilometri da Sarajevo, che ospita uno dei centri di accoglienza temporanea dove soggiornano migranti e rifugiati reduci dalla rotta balcanica. Gestito dall’Organizzazione Internazionale delle Emigrazioni, il campo è una specie di oasi dove i migranti rifocillano corpo e spirito in attesa di provare il “Game”. Così viene chiamata da queste parti l’ultima tappa della rotta balcanica, ovvero il tentativo di attraversare il confine dei paesi balcanici per cercare, a volte anche a costo della vita, di entrare nel territorio dell’Unione Europea. Il campo di Usivak ospita famiglie e minori non accompagnati fino ad un totale di 800 persone. All’interno del campo gli alloggi sono tutti allineati, uno dietro l’altro. Ci sono dei giochi sparsi per bambini: un’altalena, uno scivolo, persino un campo di calcetto, pieno di buche e con porte improvvisate. Poi c’è un piccolo container dove si tengono le lezioni per i più piccoli e i laboratori manuali per tutti. C’è anche una sartoria, dove i sogni e le idee, almeno lì, diventano realtà.
Qual è stato il tuo ruolo nel campo di Usivak?
Io ed altri ragazzi siamo stati protagonisti del “social corner”, ovvero l’angolo dedicato alla socialità, dove, grazie al progetto Remap, abbiamo prestato servizio: si tratta di un prefabbricato, dono di papa Francesco, dove ogni giorno alcuni volontari, operatori di Caritas Bosnia e Caritas Italiana, accolgono ed aiutano i migranti, rispettando la laro dignità di esseri umani. Lo fanno con gesti semplici, come offrire loro una tazza di té o di caffè. In questo modo riescono ad instaurare una relazione, condividendo spesso anche le loro storie e cercando di capire ciò di cui hanno bisogno. Sono persone con storie di povertà e di disperazione alle spalle che non chiedono nulla, se non di essere ascoltate. Mentre ero ad Usivak, pensavo ad una frase detta da papa Francesco durante la pandemia: “Dobbiamo trovare il coraggio di aprire nuovi spazi dove ognuno possa sentirsi benvenuto e dove possiamo mettere in campo nuove forme di ospitalità, di fratellanza e di solidarietà”. Ecco, Usivak è già uno di questi spazi.
Cosa ti ha dato questa esperienza?
Questa esperienza, a livello personale è stata provvidenziale. Ero in un periodo un po’ negativo della mia vita e mi sono trovata a prestare servizio in un luogo in cui, nonostante le mille difficoltà che quei volti avevano e avrebbero incontrato ancora, si respirava comunque speranza, resilienza e soprattutto umanità. Cosa che spesso dimentichiamo da quest’altra parte del mondo, dove i nostri ritmi di vita sono incalzanti e siamo spesso risucchiati dai mille impegni, non ci fermiamo mai a guardare l’altro, a fissarlo negli occhi, ma soprattutto a conoscerlo, ad interessarci della sua vita in quanto nostro fratello. Io ho fatto questa esperienza, lì come volontaria ad Usivak, e mi sono potuta fermare, prendermi una pausa dalla mia vita frenetica e fare davvero esperienza dell’altro, guardando negli occhi le persone con cui ho parlato, giocato e ballato. Certamente ascoltare le loro storie non è stato sempre semplice: molti di loro, infatti, erano ragazzi partiti dal loro paese natale a 10/11 anni da soli, senza famiglia, e avevano attraversato tanti altri paesi a piedi o con mezzi di fortuna. Erano in viaggio da anni senza affetti, senza legami. Soli, con la speranza di poter un giorno arrivare in Unione Europea per vivere una vita dignitosa. Questo ha scaturito in me un voler fare di più. E per fare di più bisogna innanzitutto sensibilizzare le persone su certi temi. A partire da questo articolo ma non solo. A gennaio, infatti, partirà un progetto di sensibilizzazione, probabilmente nelle scuole e nelle parrocchie, coordinato da Caritas Marche. Questa esperienza mi ha regalato tanto e cerco, come posso, di restituire quello che ho ricevuto.
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