GROTTAMMARE – Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata ai libri di autori locali. Questa settimana abbiamo intervistato Maria Rita Bartolomei, antropologa giuridica e counselor, in merito al suo recente lavoro letterario dal titolo “Suggestioni Postmoderne. Percorsi insoliti di Antropologia Giuridica”, edito da Aracne.
I protagonisti dei suoi studi, raccolti in questo volume, sono gli esseri umani, in particolare la loro vulnerabilità. Ci spieghi meglio.
I contenuti presenti nel mio libro sono frutto di uno studio teorico e di ricerche su campo pluriennali. L’intento principale del lavoro è quello di invitare il lettore a riflettere su fenomeni importanti, che caratterizzano la nostra contemporaneità e che coinvolgono alcune categorie sociali maggiormente svantaggiate, cosiddette “vulnerabili”. A questo proposito, occorre distinguere la vulnerabilità in senso ontologico, come condizione esistenziale universale, che caratterizza tutti gli esseri umani in quanto tali, dalla vulnerabilità creata o accresciuta da particolari condizioni esterne e, quindi, come condizione esistenziale particolare. L’elaborazione del concetto giuridico di vulnerabilità, intesa come peculiare condizione di deprivazione, di discriminazione e, o di esclusione, che aumenta la probabilità di esposizione al rischio di subire violazioni dei propri diritti umani e sostanzialmente priva il soggetto di una reale possibilità di scelta, rappresenta un grande traguardo verso una maggiore uguaglianza sostanziale e una migliore giustizia sociale. Tuttavia, la questione che cerco di sollevare concerne proprio il permanere, nel nostro ordinamento giuridico, di alcune incongruenze e inefficienze che impediscono un’effettiva tutela di suddette categorie di persone e, di conseguenza, di “rimediare” efficacemente alla vulnerabilità.
Alla piaga della tratta lei contrappone l’attività portata avanti dall’associazione “On the road”.
La tratta degli esseri umani rappresenta certamente il fenomeno deviante più grave, pervasivo, complesso, redditizio e ignobile dei tempi che stiamo vivendo. Pur nella diversità delle sue forme e dei suoi scopi illegali tra i quali sfruttamento sessuale o lavorativo, accattonaggio, traffico di organi, esso è contemporaneamente globale e locale. Nella misura in cui coinvolge una quantità sempre maggiore di persone e rappresenta una gravissima violazione dei diritti umani fondamentali, la tratta può essere considerata una forma postmoderna di schiavitù. In particolare, ho preso in considerazione lo sfruttamento sessuale delle ragazze nigeriane che lavorano in strada, lungo le coste del litorale e nell’entroterra marchigiano e abruzzese e il prezioso lavoro di prevenzione, di assistenza, di contrasto e di sensibilizzazione collettiva svolto dagli operatori di On The Road. Le loro unità mobili entrano in contatto con le potenziali vittime proprio nei contesti di sfruttamento e di emarginazione: intervengono di notte, lungo le strade dove si affollano le prostitute, per accogliere la loro sofferenza, sensibilizzarle alla prevenzione sanitaria, offrire supporto, promuovere la conoscenza dei loro diritti e dei servizi offerti sul territorio e, se possibile, aiutarle a sottrarsi ai circuiti devianti all’interno dei quali sono intrappolate. Il primo contatto avviene attraverso il dono: preservativi, opuscoli informativi, talvolta anche cibo, tè caldo, merendine, fiori, etc. Il dono è un gesto che permette di abbattere le “barriere” ed entrare più facilmente in comunicazione anche senza parlare: si instaura un rapporto umano al di là delle leggi di mercato e si trasmette un messaggio di rispetto e di accettazione incondizionata, che talvolta porta le vittime a fidarsi e a intraprendere un percorso di consapevolezza e di emancipazione per poter decidere della propria vita.
Lei in queste pagine esamina quattro fenomeni sociali oggi più che mai al centro delle cronache: la tratta degli esseri umani, la condizione carceraria, il femminicidio e il principio di reciprocità. A quale di questi temi è più vicina e perché?
Tutti i temi trattati fanno parte della mia formazione personale, del mio bagaglio esperienziale di studio e di ricerca e mi appassionano ugualmente. Tuttavia, se proprio dovessi fare una scelta, opterei per il principio di reciprocità. L’approccio antropologico considera la “norma di reciprocità” un elemento essenziale della capacità disciplinante del comportamento umano da parte di ogni ordinamento giuridico. Personalmente ritengo che, laddove opportunamente applicato e rispettato, il principio di reciprocità possa favorire l’obiettivo delicato e complesso di una sorta di “riconoscimento transculturale dell’uguaglianza delle differenze”, e lavorare come possibile meccanismo di regolamentazione dei rapporti individuali e collettivi, come pure tra sistemi giuridici differenti. Il “linguaggio” e lo “spirito” del dono (inteso in senso antropologico) possono costituire un valido antidoto alla progressiva mercificazione dell’uomo e del mondo. Il principio di reciprocità, che li sottende, può operare a tutti i livelli della vita sociale e promuovere uno sviluppo non polarizzato esclusivamente sugli interessi e sui guadagni privati di pochi, ma volto al rafforzamento delle relazioni sociali e alla stabilità dei sistemi giuridici. Come forma di agire orientata ai valori è una sorta di meta-regola che favorisce l’equità, incoraggia la cooperazione ed è un deterrente rispetto agli abusi e alle prevaricazioni. Proporre il principio di reciprocità come norma giuridica fondamentale, capace di traghettare gli attuali assetti democratici verso traguardi di maggiore uguaglianza e giustizia sociale è una sfida che mi sento di lanciare, con grande senso di responsabilità, ma anche con grande fiducia nella possibilità di recuperare una dimensione comunitaria, nonché pratiche e valori fondamentali, come la solidarietà, la condivisione e il rispetto reciproco.
Parlando di femminicidio lei afferma che tra le cause c’è anche la “demenza digitale”. Dunque, che ruolo sta avendo la rete, cosa è capace innescare nell’uomo?
La rete, da un lato, accorda all’uomo il potere di estendersi al di là della propria finitezza sensoriale e fisica e lo rende “cittadino del mondo”; dall’altro lato, ne rafforza il senso narcisistico di onnipotenza e influenza negativamente i costrutti relativi alla sua autostima. L’uso eccessivo delle risorse digitali, infatti, modifica il senso reale delle cose, innescando un processo che neutralizza l’individuo come soggetto cosciente. Nel senso che non si utilizza il dispositivo solo per informarsi o comunicare, ma ci si relaziona costantemente con esso. Di conseguenza, la comunicazione diviene meno sociale e più soggettiva e virtuale, l’individuo è sempre meno capace di relazionarsi con se stesso, con le persone reali e con l’ambiente circostante. Si crea una sorta di meccanismo complesso e articolato che rende il fruitore totalmente assoggettato alla rete, tanto da indurre dipendenza psicologica e sviluppare disturbi psicopatologici analoghi a quelli derivanti dall’utilizzo di sostanze psicotrope, tra i quali: scarsa tolleranza alla frustrazione e comportamenti aggressivi e violenti verso qualsiasi Altro, anche il vicino di casa o la compagna di una vita.
Durante la sua esperienza di ricerca e didattica seminariale presso la Casa Circondariale di Ascoli c’è un episodio, una persona che in qualche modo l’ha colpita maggiormente?
Il Corso Dignità e diritti, che ho tenuto nel 2018 insieme ad altri volontari presso la Casa Circondariale di Ascoli Piceno, ha riscosso molto successo tra i partecipanti. Ho instaurato buone relazioni con tutti i reclusi e ognuno di loro mi ha insegnato, o comunque trasmesso, qualcosa di importante. Molto suggestiva è la metafora utilizzata da un detenuto che ha equiparato la Costituzione italiana ad «una “bella donna” da tutti ammirata e corteggiata, che però nessuno riesce a conquistare pienamente». Così come, parlando del concetto di giustizia, un altro detenuto ha sapientemente declinato l’idea di giustizia sia al singolare, nella sua relatività, come «possibilità di riabilitazione e di riscatto da offrire a tutti»; sia al plurale, nella sua universalità, come aspirazione dell’uomo a essere utile a se stesso e all’intera umanità.
Nelle ultime righe di questo volume scrive “l’intento del presente lavoro è quello di sollevare questioni e di offrire spunti di riflessione, piuttosto che suggerire risposte”.
Le questioni affrontate nel mio libro aprono ampi scenari teorici e pratici, tuttora oggetto di vivaci dibattiti pubblici e scientifici. La complessità delle situazioni che ci troviamo a vivere ci esorta a comprendere le radici culturali dei fenomeni ai quali assistiamo, sottolinea con forza il difficile ruolo regolativo che il diritto svolge in epoca postmoderna e l’esigenza di pensarlo in modo radicalmente nuovo. Ovvero, in grado di tutelare effettivamente anche i diritti dei soggetti più deboli e bisognosi. Nel ribadire la necessità di una trasformazione valoriale e culturale, sia individuale che istituzionale, della coscienza giuridica, ritengo che l’antropologo contemporaneo non possa più assumere un compito esclusivamente scientifico e limitarsi a descrivere situazioni e culture. Oggi più che mai egli è chiamato a svolgere una funzione di recupero delle tradizioni etniche e locali, di denuncia delle ingiustizie e delle violazioni dei diritti umani, di reinterpretazione e di riproposizione di valori sociali percepiti come indispensabili a un autentico progresso umano e al benessere delle generazioni future: giustizia ed equità, empatia e compassione, rispetto per la natura e l’ambiente, collaborazione e responsabilità reciproca. Vale a dire, dovrebbe esercitare un imprescindibile ruolo pedagogico, etico e politico nei confronti di ogni singolo altro e dell’intera umanità.