Di Francesco Occhetta
Alla fine di ogni anno vengono pubblicati alcuni Rapporti nazionali che aiutano a trovare chiavi di lettura per interpretare la realtà. Quelli dell’anno appena trascorso sono accomunati da un velo di pessimismo e di paura. «La società italiana», afferma il 56° Rapporto Censis, «entra nel ciclo del post-populismo. Alle vulnerabilità economiche e sociali strutturali, di lungo periodo, si aggiungono adesso gli effetti deleteri delle quattro crisi sovrapposte dell’ultimo triennio: la pandemia perdurante, la guerra cruenta alle porte dell’Europa, l’alta inflazione, la morsa energetica. E la paura straniante di essere esposti a rischi globali incontrollabili».
È la paura del futuro che impedisce di immaginare il mondo: per questo cresce la diffidenza tra le persone, aumentano i conflitti sociali, prevale la sfiducia sulla progettualità. Tuttavia mentre cresce il malcontento per le diseguaglianze sociali non si registra nessuna voglia di cambiare o di mobilitarsi collettivamente. Anzi, invece di attivarsi ci si chiude come i ricci; mentre si soffre si accetta la realtà come spettatori passivi. Così come non scendono in piazza, gli italiani non vanno nemmeno a votare: l’astensionismo alle elezioni di settembre 2022 è stato il più ampio nella storia della Repubblica. Chi ha scelto di non votare era la maggioranza, quasi 18 milioni di persone, il 39% degli aventi diritto al voto. I ceti popolari sono diventati conservatori, la classe media e borghese s’è trasformata in progressista, ma per tutti lo sviluppo basato sul rapporto tra lavoro e benessere, tra economia e democrazia non funziona più. Occorre ripensare a un nuovo modello di sviluppo. Ma in molti si limitano a pensare il nuovo in un paradigma già vecchio.
Così, se da una parte la diagnosi degli italiani sul contesto sociale è lucida, dall’altra parte la terapia sociale a cui tendere è ancora molto confusa. È l’identikit di una persona autosufficiente, costretta a ridurre il proprio tenore di vita, disposto a vivere il presente senza pensare al domani mentre ci si compiace della propria solitudine. Deve far riflettere la frase scelta per definirsi da più del 50% degli intervistati: «Lasciatemi vivere in pace nei miei attuali confini soggettivi»; per questo si abdicano «le manifestazioni collettive come scioperi, manifestazioni e cortei». L’apatia sociale di molti blocca energia, laboriosità, operosità: 4 italiani su 5 «non hanno voglia di fare sacrifici per cambiare» e per quasi il 40% non interessa più sacrificarsi per far carriera o guadagnare meglio.
Il nichilismo contemporaneo è nutrito dal sentimento della malinconia, l’io sociale non è mosso da spinte generative e dal cambiamento del mondo intorno a sé. Le aspettative si sgretolano per l’assenza di motivazioni forti. In questo vuoto si annidano paure nuove: l’84,5% degli italiani, in particolare i giovani e i laureati, ritiene che eventi geograficamente lontani possano cambiare le loro vite; il 61% teme che possa scoppiare la Terza guerra mondiale, il 59% che scoppi la bomba atomica e il 58% è convinto che l’Italia possa entrare in guerra. Occorre dare un colpo d’ala sociale. Per gestire la denatalità, la longevità, la crisi della famiglia e l’ondata di emigrazione italiana verso altri Paesi è necessario che a livello sociale si riaffermi un grande “sì alla vita” per custodire le politiche sociali dell’Italia e per ripensare gli stili di vita basati sul consumo e sulla solitudine.
In controluce emerge la nostalgia di riscoprire il valore della ricerca di senso, per costruire un nuovo “collante” nella società. Lo sguardo positivo verso gli altri pone nelle condizioni migliori per far fronte alle derive negative presenti nella società italiana d’oggi.
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