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Bagnasco: “La fede è bellezza che salva”

foto SIR/Marco Calvarese

Alessio Magoga

Già presidente della Conferenza episcopale italiana, del Consiglio episcopale di Europa ed arcivescovo emerito di Genova, il card. Angelo Bagnasco, la settimana scorsa, in vista alla diocesi di Vittorio Veneto ha proposto un corso di esercizi spirituali ad un nutrito gruppo di sacerdoti della diocesi  e di altre diocesi, presso la Casa esercizi San Martino. Lo abbiamo incontrato.

Eminenza, in una delle sue omelie, ha esordito dicendo che ha quasi potuto “vedere e toccare la fede” delle nostre comunità, della nostra diocesi, cosa voleva sottolineare?
“È la prima volta che vengo a Vittorio Veneto. In questi diversificati incontri, l’impressione è quella di un forte senso di appartenenza: alla diocesi e al territorio. Sottolineo questo aspetto perché il senso di appartenenza, oggi, lo vedo piuttosto diluito e ciò non è un bene. Appartenere ad un territorio, ad una comunità religiosa ed anche civile, è molto importante per tutti, perché aiuta a vivere e a non perdere il proprio volto”.

Sempre nella sua omelia, ha parlato della bellezza della fede che va “amata, conosciuta e condivisa” con l’uomo di oggi. Quali sono i principali tratti della società di oggi? E conseguentemente le principali sfide della Chiesa?
“Guardando il nostro continente, che ho potuto conoscere direttamente per diversi anni, la cultura europea non aiuta l’uomo ad essere sereno e felice. Lo porta su una via di progresso, ma appiattisce l’uomo, non gli permette di cogliere le domande profonde. Mi sembra di cogliere una certa tristezza pur in mezzo a tante altre cose positive come il progresso, un certo benessere, il lavoro… Noto una sorta di inquietudine che non trova risposta nelle proposte umane, perché essa è la traccia che Dio lascia nell’anima di tutti. Esprime una domanda fondamentale, che l’uomo a volte non confessa neppure a sé stesso: che cosa sarà di me, della mia vita, del mio io? E allora va alla ricerca talora illusoria di soddisfazioni immediate, di vie di fuga che lo lasciano peggio di prima. Questa domanda è nel cuore anche dell’uomo europeo, anche se spesso è distratto e occupato da altre cose”.

E per quanto riguarda l’Italia?
“Rispetto ad altre situazioni siamo molto fortunati. Perché un certo senso di appartenenza alla comunità cristiana è ancora molto diffuso. Noi pastori, in quanto padri, in una società senza padri, dobbiamo cercare di risvegliare le domande sopite nel cuore dell’uomo e indicare la via che Gesù ci ha indicato”.

Nietzsche – da lei citato – critica i cristiani perché i loro volti appaiono “troppo poco redenti”. C’è un appello alla gioia, cui spesso Papa Francesco ci richiama come discepoli-missionari del Vangelo della gioia.
“Il secolarismo è vivere come se Dio non ci fosse. Esso è diffuso soprattutto in Europa occidentale ed è presente anche nel nostro Paese. Credo che esso sia dovuto anche ad una mancanza di gioia da parte di noi cristiani, come se dessimo l’idea che essere cristiani è un giogo pesante e non un “giogo leggero” come insegna Gesù. Ciò non favorisce la nascita della fede, ma piuttosto l’allontanamento. Dobbiamo essere consapevoli che la fede è bellezza che salva, nel senso che – come dice Florenskij – la vera bellezza non è solo quella estetica, ma è soprattutto l’amore. L’amore è la bellezza e Dio che è amore e verità è la bellezza suprema. La bellezza deve ispirare la nostra vita di cristiani ed essere alla base della nostra testimonianza”.

Lei è stato presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE). Alla luce di questa esperienza, quale lettura dare alla drammatica guerra in Ucraina?
“I conflitti – ce n’è circa un centinaio nel mondo – sono situazioni complesse in cui il giudizio avventato può peggiorare le cose. Ci sono diversi elementi che si intrecciano: storie non riconciliate, interessi economici che a volte sono più determinanti di quello che appare; motivi culturali che possono fare dei solchi profondi tra i popoli. Anche questa è una pista da seguire con molta serietà per non omologare: le culture e le storie. Ogni popolazione ha una propria identità e questo è importante. A volte l’identità è considerata un segno di contraddizione anziché una ricchezza, un segno di vita; non è necessariamente un motivo di divisione, come oggi spesso si pensa. Il volto di un popolo deve essere riconosciuto e rispettato, senza imperialismi che vogliono uniformare, anche perché nessuno vuole essere omologato. Ed è giusto così”.

Nel suo ministero – tra le tante esperienze educative con i giovani – è stato anche assistente ecclesiastico scout. Che cosa ha significato lo scoutismo per lei?
“Ho dei bellissimi ricordi. Sono nel mio cuore. Mi hanno segnato, insieme alla Fuci e alla parrocchia nella quale sono stato e ad altri incarichi che mi sono stati affidati nel corso degli anni. Tornando allo scoutismo, ho seguito tutto il percorso: dai lupetti, come Baloo, fino alla Comunità capi. Mi ha lasciato un grande ricordo e molti insegnamenti. Non conoscevo gli scout: nella mia parrocchia d’origine non c’erano. Sono entrato in punta di piedi in tutto quello che non sapevo (il gergo, la visione, la storia, il metodo…), cercando di instaurare un rapporto di fiducia: io in loro e loro in me. E quando si instaura la fiducia, il gioco è fatto. Nello scoutismo, poi, tutto si basa sul gioco: anche i valori più importanti si trasmettono attraverso il gioco e il contatto con la natura. In modo particolare, ricordo – insieme ai campi coi lupetti e gli esploratori – le 18 route con il clan. Esperienze durissime, da un punto di vista fisico, ma esperienze che incidono nell’anima in modo indelebile e, grazie ad esse, si entra in una comunione profonda con i ragazzi che accompagna poi per tutta la vita”.

Il 31 dicembre è morto il papa emerito Benedetto XVI. Lei lo ha conosciuto da vicino. Che ricordo ne ha? Come vorrebbe che fosse ricordato?
“Il ricordo che ho è quello che si è materializzato nella gente presente al funerale e ancora di più nel fiume di popolo che gli ha fatto visita in san Pietro. Mi ha colpito la presenza di tanti giovani. In piazza, poi, c’era un numero straordinario di sacerdoti: si parla di cinquemila, oltre che molti vescovi e cardinali e numerose delegazioni di vari Paesi del mondo. Chi era, allora, Benedetto? Era tutto questo. Era e rimane nel cuore di tutti. Tutt’altro che lontano, freddo, accademico, quasi fuori del mondo! Ricordo la sua sensibilità e il suo calore, molto composto e discreto: un’affettività che dava fiducia a chi lo poteva incontrare direttamente o anche solo vedere. Mi ha sempre colpito il suo grande rispetto per le persone: tutte, qualunque punto di vista avessero. Rispetto delle persone singole, delle istituzioni, degli organismi che aiutano il Santo Padre. Un grande rispetto per il lavoro degli altri. Nel firmamento del cielo Benedetto è una stella che brilla con la sua gigantesca fede, la lucidità della ragione e l’amore alla Chiesa e per il mondo. I valori “non negoziabili” ne sono una prova. Speriamo che possa diventare Dottore della Chiesa”.

Un messaggio, un augurio per la nostra Chiesa diocesana in questo nuovo anno?
“Direi di non avere paura, anzi di avere molta fiducia. I cristiani non possono avere paura, né mancare di fiducia perché Gesù è con loro è presente e vicino all’umanità. Mi rivolgo soprattutto ai giovani, che abbiano fiducia nei confronti del loro futuro. So che molti giovani guardano al futuro con preoccupazione perché ci sono troppe incertezze e pochi punti fermi. La famiglia, i responsabili delle organizzazioni, la politica, il lavoro… tutto appare labile. Ebbene, i giovani non devono assolutamente avere timore, perché con l’aiuto di Dio tutto è possibile. A noi adulti la responsabilità e la gioia di sostenerli”.

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