SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Si è celebrata giovedì 2 febbraio, alle ore 18:00, presso la Cattedrale Santa Maria della Marina di San Benedetto del Tronto, la XXVII Giornata per la Vita Consacrata, in concomitanza con la Celebrazione Eucaristica della Candelora presieduta dal Vicario Generale don Patrizio Spina, che ha portato a tutti il saluto del Vescovo Carlo Bresciani, assente per altri impegni pastorali.
Alla celebrazione erano presenti i Religiosi Sacramentini, i Frati Minori Conventuali di San Benedetto del Tronto e Montedinove, i Frati Minori di Monteprandone ed i Frati Agostiniani di Acquaviva Picena. Insieme a tutti loro ha concelebrato Mons. Romualdo Scarponi. Presenti anche i diaconi Walter Gandolfi ed Emanuele Imbrescia.
Per la speciale occasione all’Eucarestia hanno partecipato molte Religiose presenti in Diocesi: le Sorelle Povere di Santa Chiara, le Suore Battistine, le Concezioniste, le Suore della Fanciullezza, le Suore del Divino Amore, le Teresiane, le Suore del Piccolo Fiore di Betania, le Francescane del Santissimo Cuore, le Oblate del Santissimo Redentore e le Suore di Santa Maria.
Il pomeriggio di preghiera è iniziato alle ore 17:00 con l’Adorazione Eucaristica. Alle ore 17:45 tutti i presenti si sono radunati all’esterno della Cattedrale per procedere alla benedizione delle candele. Dopo una breve processione, i fedeli sono rientrati per celebrare la Santa Messa.
Queste le parole di don Patrizio Spina durante l’omelia: “Carissimi, la festa della Presentazione di Gesù al tempio che stiamo celebrando questa sera insieme, affonda le sue radici alle origini della comunità cristiana. Presente già a Gerusalemme dal IV secolo, si diffonde nei secoli successivi in Siria e, giungendo a Costantinopoli, assume il nome di ‘incontro’ (in greco, Hypapantè). Questo titolo è perfettamente adeguato a descrivere l’ingresso del Verbo di Dio nella tenda della nostra fragile umanità secondo la prospettiva offerta dall’autore della lettera agli Ebrei, come ci ricorda la seconda Scrittura di oggi: «Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,14-15). Esattamente quaranta giorni dopo la celebrazione del santo Natale, la comunità dei credenti ravviva la memoria che «la luce vera» (Gv 1,9) non ha bisogno soltanto di essere accolta, ma persino restituita ed è, grazie a questo scambio di doni, ricevuti e donati, che possiamo sentirci tutti liberati nelle nostre fragilità e sorretti nei nostri percorsi. Ed è cosi che il profumo del Regno si può diffondere nel mondo e nella storia: attraverso il duplice movimento della nostra ricezione e restituzione, attraverso cui il mistero di Incarnazione si trasforma in un chiarore che «illumina ogni uomo» (1,9), che è luogo e spazio di salvezza e di incontro per tutti. La liturgia della festa odierna si è aperta, infatti, con un suggestivo lucernario, un gesto fortemente simbolico che ci ha introdotto ed accompagnato alla celebrazione eucaristica. Tutti siamo stati invitati a prendere gioiosamente tra le mani la fiamma di una candela, quindi a entrare processionalmente nel tempio custodendo «tra le braccia» (Lc 2,28) la luce, simbolo per eccellenza della manifestazione di Dio. È un rito semplice, familiare, eppure ricco di allusioni simboliche alla Pasqua e al Battesimo”.
“Il gesto di apertura e di accoglienza della luce – ha proseguito don Spina – ci consente di «imitare» l’atteggiamento di Maria, la vergine che ha saputo fare generoso spazio alla presenza di Dio nel suo giovane grembo, senza mai considerare questa elezione «un privilegio» (Fil 2,6), bensì un servizio da assumere fino alle conseguenze più estreme: «E anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35), come le ricorda Simeone. Il vangelo dipinge la madre di Dio proprio così, nel momento in cui, insieme a Giuseppe, si reca al tempio per offrire il suo primogenito come dono «sacro al Signore» (2,23), secondo quanto «prescrive la legge del Signore» (2,24). In questo atto di riconoscimento e di restituzione, la Chiesa manifesta l’essenza più profonda della sua missione nel mondo: accogliere e offrire il Salvatore del mondo, l’unico in grado di intercettare il sospiro profondo presente nel cuore di ogni esperienza umana: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti» ci ha ricordato il profeta Malachia nella prima Scrittura.
Non è un caso, quindi, che proprio in questo giorno la Chiesa faccia memoria del dono della Vita Consacrata, cioè di quell’esperienza ininterrotta di tanti uomini e donne che lungo i secoli, professando i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza, hanno manifestato il desiderio di una radicale dedizione al regno di Dio, offrendosi ai fratelli come un segno che «può e deve attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a vivere con slancio la bellezza della vita cristiana (cfr.Lumen Gentium, 44).
La Vita Consacrata è fiaccola accesa per ricordare alla Chiesa non tanto ciò che essa è chiamata a fare, quanto ciò che essa deve anzitutto essere, prima e al di là di ogni ruolo assunto: due braccia aperte, disposte ad accogliere tutta la luce della rivelazione di Dio e, al contempo, a offrirla al mondo attraverso la testimonianza di una vita plasmata dalla logica delle beatitudini e dalla libertà della croce“.
Il vicario ha poi proseguito parlando del tema della XXVII Giornata Mondiale della Vita Consacrata: “Quest’anno, celebrando questa ricorrenza, siamo invitati a riflettere sul tema: ‘Sorelle e fratelli per la missione’. L’indicazione è chiara e duplice: offrire una forma alternativa al modo di abitare questo mondo, esposto a molte minacce, perché o ci salviamo tutti o nessuno si salva, come ci ricorda p. Luigi Gaetani, Presidente Nazionale della CISM. Questo è il progetto nuovo: «Di fronte ai vari modi di eliminare gli altri, si sia capaci di reagire con un nuovo sogno di fraternità e amicizia sociale» (Fratelli tutti 6), pensando e generando un mondo ospitale, una visione inclusiva della vita e delle relazioni; testimoniare che la Chiesa è missionaria prima di fare missione e che ogni forma di discepolato implica l’essere missionario (Evangelii gaudium 120) perché «io sono una missione su questa terra» (Eg 273). La svolta missionaria della Chiesa esige che i consacrati ritrovino nel cammino il senso stesso della vita: «Tornare a camminare a piedi nudi lungo le strade d’Europa», diceva Davide Maria Turoldo. I consacrati e le consacrate, come testimonia la storia, non hanno mai smesso di camminare; le loro scarpe sono infangate, consumate, impolverate come quelle di Teresa di Gesù, Filippo Neri, Daniele Comboni, Giovanni Bosco, Teresa di Calcutta“.
“In questo tempo sinodale della Chiesa – ha aggiunto don Patrizio – riprendiamo alcune suggestioni, tentando di aprire strade dimenticate o smarrite nella mappa dell’esodo.
Camminare è esperienza del corpo e dello spirito, è una grazia ed una necessità, è l’esperienza che maturiamo dal primo momento in cui veniamo al mondo, percorrendo ogni terra, per quanto ostile possa apparire. Camminare è importante, consente di conoscere altre persone, culture e tanta parte di umanità.
Camminare è una grande metafora. Abramo ha iniziato la sua storia e quella di un popolo, camminando: «Alzati, cammina verso la terra che ti mostrerò» (Gen 12,1ss.). Tu cammina, non voltarti indietro, perché solo camminando si apre il cammino. Bisogna andare oltre, abitando bordi, confini, frontiere. Tutti siamo in cammino, parte di una carovana che ci rende fratelli tutti, migranti rispetto a noi stessi e al mondo.
Camminare è scrivere la storia consumando le scarpe, perché senza scarpe consumate non possiamo dire di aver vissuto. I piedi non sono arti ma sono organi di senso attraverso i quali percepiamo la voce della terra e comprendiamo che i pensieri non ci arrivano solo dall’intelletto, ma risalgono dal basso del corpo per insediarsi, poi, nelle caverne della mente e del cuore. Forse per questa ragione Gesù ha voluto lavare i piedi ai suoi amici, consapevole che la Parola si sarebbe diffusa attraverso le fatiche del loro andare: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28,19; Mt 10,5; Mc 16,15).
Camminare significa armonizzare respiro, battito del cuore e andatura; quando questo accade non siamo più noi che facciamo il viaggio, ma è il viaggio che fa noi. Impariamo a lasciarci vivere, ad avere l’andatura lenta, quella di chi deve andare lontano, di chi deve fare un viaggio dentro, una esperienza del corpo che si riflette sull’anima, sul pensiero, che richiede solitudine interiore.
Camminare è andare verso se stessi: Hagar, la lingua semitica dice che il suo nome significa “la viaggiatrice”, è la donna cercata da Dio nel deserto del mondo, è colei che accetta di fare un cammino verso se stessa e qui, a contatto con la sua fragilità, trovare Dio e l’umano (Gen 16). Camminare è discendere nelle proprie caverne (Giovanni della Croce, Fiamma 3,18) dove c’è l’enigma, dove abitano le ombre, dove c’è anche l’inferno, perché potremmo essere abitati dall’inferno…e la vera sfida consiste nell’intraprendere il cammino e accedere alla propria interiorità, per non vivere fuori del proprio “castello” (Santa Teresa di Gesù, Il castello interiore) …”.
La Giornata Mondiale della Vita Consacrata ricorda che non sappiamo come andrà a finire questo cammino sinodale, il cammino di questa Chiesa che sentiamo madre e che ogni giorno tentiamo di amare. Il Sinodo, però, già ci insegna a fare viaggi, anche quelli che si compiono in perfetta immobilità, come quelli che fa una contemplativa a partire dalla propria cella, o quelli narrati da un guardiano del faro, perché solo nella mendicanza si possono vedere e registrare una quantità smisurata di cose fuori e dentro. Se poi tutto si silenzia dentro e l’eco infernale del quotidiano tace, – ricorda sempre p. Luigi- apparirà la tua interiorità come il fragore di un fiume, come mareggiata che canta sulla sabbia di una spiaggia, come voce che ti sveglia la notte, come fremito che ti porta a stare sotto un cielo stellato, silente mentre tutto appare chiaro, mentre torni a parlare con te stesso “e ciò sarà esperienza di pace vera, ancora una volta ricevuta e donata”.
“Questa celebrazione di stasera – ha concluso don Spina, rivolgendosi direttamente ai Religiosi e alle Religiose presenti – è Eucarestia, autentico ringraziamento a Dio, per la vostra presenza amica, carissime sorelle e fratelli che avete consacrato la vostra vita al Signore, perché tutti noi abbiamo fatto più volte esperienza che, avendo camminato con noi, ci avete sempre ricordato che nel nostro cammino non siamo soli. Quante volte il vostro ascolto, il vostro sguardo e la vostra delicata discrezione sono stati per tutti noi, per me e per tanti qui presenti, farmaco e sostegno per riprendere il cammino di discepoli del Signore. Ringraziamo il Signore perché le nostre vite, intrecciate a quella di Cristo Signore, continuano a renderci fratelli e sorelle, gli uni per le altre. Credo poi che essere qui, stasera, sia anche occasione preziosa per chiedervi perdono se a volte, distratti da tante altre cose, non ci siamo accorti di voi o abbiamo dato per scontato la vostra presenza in mezzo ed accanto a noi. Davvero, perdonateci e che il Signore continui a benedirvi sempre, ogni giorno della vostra vita”.
Durante le preghiere dei fedeli don Patrizio Spina ha ricordato anche tutti i Religiosi e le Religiose che “abitano nella Gerusalemme Celeste. In particolare l’occasione è stata propizia per un ricordo commosso di padre Emanuele D’Aniello, dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, morto la settimana scorsa.
Dopo la celebrazione, tutti i Religiosi e le Religiose si sono radunati in sagrestia per un breve momento di convivialità e di condivisione.
0 commenti