Sergio Perugini
Tre autori di peso in sala a febbraio. Anzitutto “Tár” firmato Todd Field, enigmatico dramma esistenziale in Concorso a Venezia79 e tra i più favori nella corsa all’Oscar 2023, soprattutto per la protagonista Cate Blanchett: magnetica, portentosa. Ancora, sempre da Venezia79 “The Son” di Florian Zeller, dramma introspettivo-familiare con Hugh Jackman, Laura Dern, Vanessa Kirby e Anthony Hopkins. Zeller conferma le sue qualità non solo come drammaturgo ma anche come regista. Infine, nel segno dell’evasione, della commedia sentimentale, “Magic Mike. The Last Dance” firmato Steven Soderbergh: non un terzo atto sul mondo degli spogliarellisti, bensì un inno alla danza come dimensione artistica dove ritrovare se stessi e la libertà di esprimersi. Con Channing Tatum e Salma Hayek Pinault.Il punto Cnvf-Sir.
“Tár” (Cinema, dal 09.02)
La vertigine del potere logora chiunque, senza distinzioni. È il punto nodale dell’ultimo film del regista Todd Field, “Tár”, tra i più applauditi e premiati a Venezia79 e in lizza per gli Oscar. L’autore statunitense, classe 1964, dopo l’acclamato esordio con “In the Bedroom” (2001) e “Little Children” (2006), ha deciso di tornare dietro la macchina da presa con “Tár”, pensato sin dal principio per un’attrice-musa: “Questa sceneggiatura è stata scritta per un’artista: Cate Blanchett. Se avesse rifiutato, il film non avrebbe mai visto la luce”. È vero,la Blanchett offre una performance davvero singolare, maiuscola, al punto da distanziarsi dalle sue “rivali” nella corsa agli Oscar,come fu a ben vedere con Joaquin Phoenix in “Joker” nel 2020: sin dalla prima a Venezia è stato subito profumo di Oscar.
La storia. Berlino oggi. Lydia Tár (Blanchett) è una direttrice d’orchestra e una musicista di fama internazionale. Partita dagli Stati Uniti, si è imposta nel tempio della musica classica in Germania, dove si è legata sentimentalmente a una collega, il primo violino Sharon Goodnow (Nina Hoss). Quando sta per coronare il suo progetto artistico, la direzione della V Sinfonia di Gustav Mahler, iniziano a uscire su di lei spinose indiscrezioni. Ex collaboratrici l’accusano di abusi e manipolazioni, in primis l’assistente Francesca Lentini (Noémie Merlant)…
Nell’ormai sedimentato processo del #MeToo, che ha portato a far emergere abusi nel mondo dello star system (soprattutto ai danni delle donne),il film di Field allarga il campo dello sguardo sottolineando come il potere logori chiunque, uomini e donne; comportamenti spregiudicati e ricattatori non hanno sesso, sono solo l’espressione di un’umanità corrotta e deragliata.Field è bravissimo nel dirigere una simile partitura narrativa, resa con grande controllo e rigore, con un racconto che corre su rigide linee geometriche che poi si accavallano, deragliando, quando il mito granitico di Lydia Tár viene messo in discussione.
Il risultato deve molto all’interpretazione della Blanchett,che si carica sulle spalle il peso di un’opera dove lei è il perno, dove occupa sempre la scena, passando dalle vette algide dell’eccellenza alle amarezze di una rovinosa implosione. La sua performance è talmente totale, in chiave fisica, espressiva e introspettiva, da renderla immensa. Nel complesso “Tár” è un’opera densa e stratificata, dal ritmo serrato e dall’impostazione rigorosa, che sembra perdere un po’ di compattezza nei volteggi finali. Complesso, problematico, per dibattiti.
“The Son” (Cinema, dal 09.02)
È stato tra i titoli più attesi di Venezia79: parliamo di “The Son” del drammaturgo Florian Zeller, che ha conquistato Hollywood nel 2020 con il suo folgorante esordio “The Father”. Anche questo nuovo film prende le mosse da una sua pièce teatrale.
La storia. New York oggi, Peter (Hugh Jackman) è un avvocato cinquantenne la cui carriera è prossima a una svolta. Sposato in seconde nozze con la trentenne Beth (Vanessa Kirby), ha appena avuto un figlio. In verità l’uomo è già padre di un adolescente, Nicholas (Zen McGrath), nato dalla relazione con la coetanea Kate (Laura Dern). Il primo matrimonio è però naufragato a causa di varie incomprensioni e a farne le spese è soprattutto Nicholas, che si è chiuso maggiormente in se stesso. Dinanzi a prolungate assenze da scuola e ad atteggiamenti autolesionistici, Peter decide di prendere il ragazzo con sé…
“È un film sul senso di colpa, sui legami familiari e, in ultima analisi, sull’amore”.Così il regista Florian Zeller. L’autore parigino sorprende ancora una volta con un dramma intimista, mettendo in scena i tormenti di un padre, di una madre, davanti a un figlio che si scopre malato. Nicholas è caduto nella vertigine della depressione giovanile, una vertigine che lo ha inghiottito a partire dalla fine del matrimonio dei genitori.Punto di vista della storia sono le due figure genitoriali, come pure Beth, la nuova moglie di Peter: adulti che si adoperano con ogni sforzo per entrare nelle pieghe della mente e dell’animo di un adolescente provato e respingente, prigioniero del mal di vivere.Vediamo così Peter pedinare ogni gesto del figlio, cercare di leggere i suoi silenzi, di favorire in lui slanci di integrazione nella nuova scuola in cui viene iscritto; gli compra una giacca, sperando che la possa indossare a una festa, come tutti i ragazzi della sua età. Nicholas lo asseconda, trasmette timide aperture, ma intanto prosegue nell’infliggersi lesioni. Come Peter, anche la madre Kate prova a penetrare la cortina di ferro del ragazzo, ma i tentativi sono vani e disperati.
Zeller è bravo, anzi bravissimo, nel governare la storia, sia dal punto di vista della regia che della scrittura; si tiene lontano abilmente da percorsi prevedibili o schematici.In “The Son” non c’è infatti nessun personaggio stonato o “sbagliato”; i genitori sono umani, terreni, cui non è possibile addossare responsabilità o mancanze.Amano il proprio ragazzo, ma il loro amore non basta a fronteggiare il buco nero della depressione. “The Son” mette pertanto in evidenza angosce, irrisolti e insicurezze genitoriali, le continue domande sull’adeguatezza o meno del proprio ruolo, sulla qualità e quantità della presenza in casa. Un cinema che si muove con passo sicuro, ma con delicatezza, regalando vibranti e contrastanti emozioni. Complesso, problematico, per dibattiti.
“Magic Mike. The Last Dance” (Cinema, 09.02)
Il Premio Oscar Steven Soderbergh, a distanza di dieci anni dall’uscita in sala della commedia “Magic Mike” (2012), torna sul progetto per la regia del terzo (nel mezzo il sequel “Magic Mike XXL” del 2015 diretto da Gregory Jacobs) e probabilmente ultimo capitolo: “Magic Mike. The Last Dance”. Protagonista è ancora Channing Tatum (anche produttore), affiancato da Salma Hayek Pinault.
La storia. Florida oggi. Mike Lane (C. Tatum), dopo una stagione di successo come spogliarellista, si ritrova con un’attività fallita e un domani da ricostruire. Assoldato dalla ricca Maxandra Mendoza (S. Hayek Pinault), moglie di un tycoon inglese nel settore dei media, si trasferisce a Londra per organizzare uno spettacolo di danza nel West End…
Partiamo subito dal perimetrare il racconto: “Magic Mike. The Last Dance” è una commedia di respiro sentimentale. Soderbergh usa la suggestiva cornice inglese, i suoi luoghi e topos culturali raffinati, per snodare una storia di riscatto attraverso la danza.Si esce dunque dal canovaccio del mero film sul mondo degli spogliarellisti per una riflessione sul valore della danza – certo, qui secondo la traiettoria sensuale – come via di libertà di espressione e di ribellione dalle costrizioni sociali.Il plot narrativo non è articolato, anzi il racconto risulta abbastanza prevedibile, ma nel complesso Soderbergh si conferma un abile autore capace di saper maneggiare qualsiasi progetto e genere. Porta a casa infatti l’operazione in maniera interessante e non banale, riuscendo a elevare il concetto dello striptease ad arte della danza di matrice sociale (la scena più riuscita è quella sull’autobus londinese, davvero acuta e godibile!). Si tratta di un film semplice, senza troppe pretese o sussulti, rischiarato qua e là da battute brillanti. Bene in generale gli interpreti. Una commedia per adulti, consigliabile, problematica-semplice.