Di Ana Fron, Rubrica “Immigrazione”
Leggi la prima puntata: Quanti immigrati ci sono nel territorio della diocesi?
Leggi la seconda puntata: Immigrati e cure mediche – Informazioni utili
Leggi la terza puntata: Diocesi di San Benedetto, gli immigrati residenti sono 13.588, le nazionalità presenti nei vari comuni
Sono un’immigrata, arrivata in Italia anni fa. Mi dicono in molti che mostro un accento estraneo alla lingua italiana anche se, la maggior parte della mia vita l’ho trascorsa qui, e questo particolare destabilizza un po’ il mio senso di appartenenza.
Per tanto tempo ho vissuto con la smania di pretendere i miei diritti; perché da immigrato senti sempre che qualcosa ti venga tolto. Volontariamente o involontariamente. Lo avverti nella vita di tutti i giorni.
Questo atteggiamento però ti porta a soffrire e ti impedisce di vedere “il buono intorno a te”. Eppure, con il vissuto, ho imparato a guardare la vita da prospettive nuove e a sentire in me crescere il senso di gratitudine.
Nella vita ti capita di cadere ed il cadere ti costringe a rialzarti, e non ci si rialza da soli. C’è sempre una mano che ti sostiene domandandoti “Hei! Cosa fai in mezzo alla strada?” Ti chiamo un’ambulanza!”. Ovviamente parlo in modo figurato, attribuendo alle idee di strada e di ambulanza qualsivoglia luoghi e persone
Si! Sono stata anche io sostenuta, appoggiata, rialzata, e non solo dai famigliari, fatto non scontato ma comunque comune a noi esseri umani, bensì da persone sconosciute e senza nessun debito nei miei confronti. Ho imparato, poco a poco, a scrollarmi di dosso l’imprinting di autocommiserazione e di pretesa, notando soprattutto quello che ricevevo dalla vita.
Ho imparato (spero per sempre) la gratitudine.
Sono tanti gli esempi che possono testimoniare la propulsione verso questo cambiamento ma vorrei fermarmi su un episodio successo pochi giorni fa.
In vista di un intervento chirurgico, programmato da tempo, mi presento nella Clinica ospedaliera “Val Vibrata” di Sant’Omero –Teramo, dove vengo ricoverata.
Mi sono molto informata sull’operazione. A sentire voci amiche, sembrerebbe semplice, ma l’ansia mi opprime lo stesso e mi accompagna per il tempo a venire. Il pensiero è costante, unico e verte intorno al momento dell’imminente intervento. In questi casi vorresti gestire l’andamento del tempo, programmarlo più o meno veloce ma non puoi, va per conto suo.
“Buongiorno signora! Ecco qui il necessario e le istruzioni per la preparazione. Fra un po’ la vengo a prendere per portarla in sala operatoria.”
La condizione di impotenza si palesa sempre di più nella mia mente. Fidarmi del prossimo non è il mio forte ma questa volta potrebbe essere la soluzione per il disagio e mi impongo di farlo. Assorbita da tali pensieri mi sveglio già distesa sul mio letto, in giro sui corridori.
“Sono giorni che non riposo bene. Una volta finiti i turni serrati di lavoro, mi divido nell’assistere l’anziana madre e il figlioletto.”
Osservo discretamente la giovane che ha parlato, notando sul suo volto la stanchezza, a conferma di quanto detto. Mi dispiace per lei e spero che sia almeno ben retribuita economicamente; anche perché, la giovane ha verso di me un comportamento ineccepibile. La stanchezza non le impedisce di fare bene e con professionalità il proprio lavoro; accertarsi che io stia bene, concedendomi dei sorrisi. Il viaggio nei meandri dei corridoi sembra essere arrivato a destinazione. Valichiamo più di una porta, fino ad un certo locale, dove vengo presa in consegna da un’altra persona. Un ragazzo con un’espressione seria, che sembra ostentare un autocontrollo, eccessivo per la sua età.
Il giovane infermiere predispone con pacatezza tutto l’occorrente: l’ago cannula, l’antibiotico, informandomi anche su alcune procedure di sicurezza. Tuttavia, nonostante le varie incombenze il tempo avanza e l’attesa non è mai gradita in questi casi.
“Noi siamo pronti”, riferisce il ragazzo a chi di dovere. Noi, come per assicurarmi di non essere sola. Una finezza linguistica, molto apprezzata in quel momento.
“Ci vorranno 5 minuti”, sentiamo rispondere da dietro un’altra porta.
La situazione in cui mi trovo mi rende poco loquace e lui, per alleviare la tensione prova a rompere il silenzio con domande sulla mia provenienza.
Mi sottopongo ad altre procedure preliminari e poi, eccomi finalmente, trasferita in sala operatoria, che trovo inquietante per l’atmosfera. Avvolta da potenti luci, la sala mi pare inospitale. I sanitari si muovono rapidamente, prendendo ognuno il posto che gli spetta.
Senza rendermene conto, mi vedo in un attimo trasferita dal mio letto ad un altro, attorniata dagli operatori. Nell’inquietudine che mi assale sento premere una mano sulla spalla come per dirmi “non sei sola!” Mi giro e vedo allontanarsi il giovane assistente di prima. Mi sento tranquilla e piano, piano, mi addormento.
La condizione che ho vissuto è comune a tutti noi. Sono in pochi coloro che nella loro vita non si siano imbattuti in un problema medico; piccolo o grande che sia. Possiamo affermare all’unanime dunque che il lavoro dei sanitari ha a che fare con un’enorme responsabilità. Ci affidiamo completamente, ponendo la vita nelle loro mani.
Conosciamo la loro preparazione professionale; con lunghi e faticosi percorsi accademici, ma la grande sensibilità empatica è ciò che li contraddistinguono maggiormente. Qualità a volte non ricompensate a dovere con stipendi adeguati e turni per un riposo psicofisico.
Quanti di noi, lasciando a casa una mamma anziana e un bambino piccolo, facendo turni estenuanti di lavoro, avrebbe ancora la forza di sorridere amorevolmente al prossimo?
Per la bravura dei medici, la professionalità di tutti gli operatori, i molti sorrisi di incoraggiamento che ho ricevuto, per il tocco sulla spalla, mi sento piena di gratitudine e sono ancora più predisposta a vedere intorno a me il buono che c’è.
La lezione di vita che noi immigrati dobbiamo imparare è quella di non dare mai per scontato, che siamo necessariamente più sofferenti degli altri, ed a non mettere in primo piano sempre e comunque la nostra diffidenza ed il nostro dolore, come fosse più grande rispetto agli altri. Guardiamo intorno a noi e vedremo i tanti piccoli gesti di affetto che riceviamo. Questo atteggiamento ci rende più buoni e più positivi rispetto alla vita.
Dare gratitudine anche in maniera disinteressata crea il circolo virtuoso DARE e quindi, RICEVERE.
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