Stefano De Martis
L’inflazione resta su livelli molto elevati ma la sua crescita rallenta. L’Istat ha comunicato che l’indice dei prezzi al consumo a gennaio è aumentato rispetto al mese precedente dello 0,1%. Su base annua l’incremento è del 10%, contro l’11,6% di dicembre. Una tendenza sostanzialmente in linea con quella rilevata da Eurostat per i Paesi dell’area dell’euro, dove però la media è dell’8,6% rispetto al 9,2% di fine 2022. L’ufficio statistico della Ue stima l’inflazione italiana al 10,7%.
L’Istat parla comunque di un “netto rallentamento” e spiega che “la discesa risente dell’andamento delle componenti più volatili dell’indice dei prezzi al consumo, fortemente condizionato dall’inversione di tendenza dei beni energetici regolamentati (-12% su base annua)”.“Restano diffuse, tuttavia – commenta ancora l’Istituto italiano di statistica – le tensioni sui prezzi al consumo di diverse categorie di prodotti, quali gli alimentari lavorati, gli altri beni (durevoli e non durevoli) e i servizi dell’abitazione, che contribuiscono alla lieve accelerazione della componente di fondo”.Quest’ultima è quella calcolata escludendo i beni e i servizi che sono soggetti a oscillazioni molto ampie, una sorta di zoccolo duro, e a gennaio è salita del 5,8% al 6%. Anche per questo l’inflazione complessiva cala ma non quanto dovrebbe.
Ora l’attenzione si sposta sulle misure che saranno prese dalle autorità monetarie. Quelle europee, sulla falsariga di quelle statunitensi, si apprestano a varare nuovi aumenti dei tassi d’interesse, forti anche del fatto che le misure restrittive per il momento non hanno affondato la crescita economica. Il pericolo di una recessione per ora sembra sventato e, anzi, un indice che viene considerato significativo per valutare l’espansione dell’economia (il Pmi, Purchasing managers index) ha toccato a febbraio un valore che non si vedeva dallo scorso maggio. Ma per il futuro? L’aumento dei tassi come risposta automatica ed esclusiva all’aumento dell’inflazione è oggetto di dibattito anche tra gli economisti.Ha suscitato molto interesse un intervento di Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, secondo cui “la Bce non dovrebbe impegnarsi incondizionatamente sulle proprie mosse future” e optare invece per “una calibrazione della politica monetaria in funzione dei dati”, per essere “risoluti” contro l’inflazione ma “nella direzione giusta”.Per Panetta “gran parte degli effetti della stretta devono ancora venire”, tanto più che “i tassi sui prestiti stanno salendo più velocemente che in passato, in linea con il ripido rialzo dei tassi della Bce”, e di conseguenza i prestiti a famiglie e imprese stanno diminuendo rapidamente.
Nel caso dei lavoratori dipendenti (insieme ai pensionati rappresentano l’85% dei contribuenti Irpef), il reddito fisso non consente di rivalersi sui prezzi e quindi l’aumento dei tassi e l’inflazione agiscono “a tenaglia”. L’Ufficio parlamentare di bilancio nella sua nota di febbraio ha sottolineato che
“la dinamica dei prezzi rimane più sostenuta rispetto alla crescita dei redditi da lavoro dipendente, causando una perdita rilevante del potere d’acquisto”.
Qui si ritorna su uno dei nodi strutturali più pesanti e coriacei della nostra economia che è la questione salariale, ulteriormente aggravata dall’elevata inflazione. La paventata spirale prezzi-salari, con un riconcorrersi di reciproci aumenti che renderebbe la situazione ingovernabile, non si è palesata neanche all’orizzonte. Al contrario, si è registrata ben chiaramente una riduzione del potere d’acquisto nell’ordine dei 14 punti percentuali in tre anni. E allora è giusto – per citare ancora Panetta – che ci sia “una qualche compensazione”, condividendo “tra capitale e lavoro” l’onere imposto dal rialzo dei prezzi.