Pubblichiamo la riflessione di Mons. Vincenzo Catani
CASTIGNANO – Mi rivolgo a te, anonimo bambino afgano di appena sette anni, che in una fredda notte di febbraio hai chiuso per sempre gli occhi su una spiaggia di Calabria, forse accanto a tua madre che ti teneva stretto a sé.
Forse ti chiamavi Fazal, o Shabir, o Abdel e un giorno, forse tuo padre o tua madre, ti hanno fatto fare un lungo viaggio attraverso terre che non avevi mai visto e stipato poi su un barcone, troppo piccolo per la quantità di tanti altri tuoi amici. Quanti eravate e quanti altri bambini, impauriti e infreddoliti come te, vi siete stretti agli adulti nei lunghi giorni di traversata dall’Egeo fino allo Ionio? E quante domande hai fatto per sapere dove andavate e perché? Forse tua madre ti ha parlato di sole, di cibo, di una nuova vita in paesi che nella tua fantasia ti apparivano come quelli delle favole che conoscevi. Forse, nei momenti di fame e di freddo, tua madre ti cantava una canzone che aveva il sapore della tua terra martoriata dalla guerra e dai terremoti.
Il mare è stato invece il tuo sepolcro, quando eri a pochi metri dalla spiaggia e quando all’improvviso hai sentito le spine dell’acqua fredda entrare nella tua carne e hai udito le grida di tanti attorno a te e che come te respiravano solo acqua.
Oh come vorrei stringerti forte, darti il mio calore, riportarti a sognare e a correre su un prato verde sotto il sole.
Perdonaci, bimbo afgano. Ci vergogniamo di noi stessi e delle tante parole inutili che ora cercheremo di trovare per scusarci. La verità è che tu facevi parte degli ultimi, degli emarginati, di quelli che non contano niente, di quelli che chiamiamo “fratelli” solo a parole. Perdonaci.
Mentre tu ora sei immerso nel grande cuore di Dio, a noi compete solo il silenzio.
E più d’una lacrima.