Giovanna Pasqualin Traversa
Ansia e stress da liceo. Dal blasonato classico Berchet di Milano arriva l’ultimo allarme: i ragazzi cambiano scuola ad anno in corso. Al Berchet i trasferimenti sono sempre stati numerosi, ma quest’anno sono aumentati: da settembre ad oggi se ne contano già 56 contro i 50 dello scorso anno scolastico. Dopo i risultati del sondaggio condotto nell’istituto – al quale hanno risposto 533 alunni sui 906 iscritti, e dal quale emerge che oltre la metà soffre di ansia e stress a causa della scuola – 507 studenti hanno inviato una lettera-petizione a docenti e preside, nella quale denunciano “una situazione di malessere psicologico” causata da “approcci inadeguati e metodi oppressivi”. Ma analoghe richieste di aiuto sono arrivate anche da licei di Bologna e di Genova. Ne parliamo con Eraldo Affinati, scrittore e insegnante romano, fondatore con la moglie Anna Luce Lenzi della scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati.
Professore, sono sotto gli occhi di tutti i “danni” provocati dal Covid-19. Ma al di là di questo, secondo lei da che cosa nasce questo disagio?
Scegliere cosa fare nella vita rappresenta un momento critico, soprattutto nei giovani, ma anche negli adulti che sempre più spesso tendono a lasciare aperte per sé stessi quante più strade possibili invece di imboccarne subito una. Questo atteggiamento mentale, legato ad un’insicurezza di fondo e perfino ad un’idea errata di libertà intesa quale superamento dei limiti, è andato oggi accentuandosi in virtù della rivoluzione digitale che ha prodotto
una deflagrazione del desiderio illudendoci di poter essere ciò che vogliamo.
Se i genitori sono così, possono trasmettere ai figli una sottile inquietudine che si riflette nell’incertezza riguardo al corso di studi da intraprendere. Saper rinunciare a qualcosa in nome di qualcos’altro è la strada maestra della maturità. L’adulto diventa credibile proprio quando si dimostra capace di incarnare le scelte compiute.
Si tratta anche di incapacità di tollerare la frustrazione di un insuccesso che, se ben gestito, potrebbe tradursi in fattore di crescita?
Sì, oggi tendiamo a rimuovere il fallimento: alla prima difficoltà desistiamo, mentre in realtà l’adolescenza dovrebbe essere per sua natura la stagione in cui ci mettiamo alla prova. Non bisognerebbe drammatizzare l’esito negativo. Se gli scolari dicono di sentire un’eccessiva pressione da parte degli insegnanti qualcosa non funziona, dal momento che l’aula non dovrebbe essere percepita come un campo di gara in cui vince il più forte, bensì come un luogo dove si realizzano imprese conoscitive da compiere nella fiducia reciproca.
Nel momento in cui assegniamo la medaglia al vincitore, ci dobbiamo chiedere cosa ne faremo di tutti gli altri che non sono riusciti a conquistarla.
Oggi ci troviamo indubbiamente di fronte ad una “generazione fragile. Ma oltre a questo non c’è anche una certa incapacità di studiare con costanza e disciplina?
I tempi della concentrazione nei giovani sembrano essersi ridotti rispetto al passato ma forse a cambiare è stata la qualità della loro attenzione: quella che a noi sembra più estemporanea potrebbe essere invece di forma diversa e quindi andrebbe meglio intercettata. Se continuiamo a proporre una scuola basata in modo esclusivo sulla lezione frontale, rischiamo di non cogliere la dimensione di tale mutamento, lasciando inutilizzate molte risorse preziose. Perché i ragazzi il pomeriggio sono molto più reattivi rispetto alla mattina? Non ci sono ricette facili per superare questo ostacolo, tuttavia molti docenti sanno che lavorare sulle motivazioni dei ragazzi, senza limitarsi a propinare loro le stesse formule di sempre, basate sullo schema spiegazione-interrogazione, nella maggior parte dei casi produce risultati apprezzabili. Per farlo bisogna conoscere chi abbiamo di fronte, quindi è necessario mettersi in gioco, anche assumendo dei rischi, in modo da uscire dalla nostra zona di sicurezza, mostrandoci per quel che siamo. Poi
non dovremmo mai dimenticare le stazioni di partenza di ognuno, premiando i movimenti registrati prima ancora dei traguardi raggiunti.
Infine bisogna considerare che ogni apprendimento possiede una forma e un tempo propri: è stato sempre così, ma oggi mi sembra che lo sia ancora di più, forse dipende dalla grande offerta informativa disponibile in Rete rispetto alla quale i ragazzi restano troppo isolati, quindi vulnerabili; da qui l’esigenza di creare sentieri conoscitivi in grado di guidarli e proteggerli.
Che cosa dovrebbe fare un insegnante di fronte alle difficoltà di un alunno che vuole abbandonare?
La prima cosa per noi insegnanti è comprendere cosa significa lasciare indietro uno studente. Tutte le volte che ne ho visto qualcuno fuori dal circuito dell’istruzione, non ho saputo trattenere dentro di me una sottile malinconia. Andando a trovare questi adolescenti riottosi nelle officine dove magari facevano apprendistato, oppure semplicemente parlando con loro, nullafacenti seduti sul muretto,
mi rendevo conto di ciò che avevano perso: non certo soltanto le nozioni che non avrebbero mai più ricevuto, ma il gruppo dei coetanei coi quali si erano fino allora relazionati e perfino la sensazione di far parte di una civiltà in avanzamento, quasi si fossero staccati da un movimento collettivo e fossero rimasti da soli, cittadini di serie B, con l’autostima azzerata.
E’ stato in quei momenti che ho toccato con mano quanto sia grave per un Paese come il nostro avere tassi di abbandono scolastici così alti. E sono rientrato in classe più carico che mai. Le tecniche per il reinserimento possono essere tante, ma ciò che conta è la nostra volontà di provarci. Credo sia fondamentale creare le condizioni per rifondare l’esperienza della realtà, superando la dimensione virtuale. Ciò comporta la riprogettazione degli spazi scolastici e la riformulazione dei programmi. Certo non lo possiamo fare contando solo sulla nostra buona volontà. C’è bisogno di un lavoro collettivo. Tutti dovremmo remare nella medesima direzione. In questa prospettiva le istituzioni, a prescindere dai governi che si sono succeduti, non hanno fatto seguire alle parole azioni adeguate. L’istruzione dovrebbe essere al primo posto. Ma finora non è stato così.
Finché non riusciremo a riorganizzare il famoso villaggio educativo, molti giovani continueranno ad abbandonare la scuola, oppure la frequenteranno controvoglia.
E la famiglia, spesso iperprotettiva, che dovrebbe fare?
“Per evitare l’iperprotezione delle famiglie nei confronti dei figli, oppure nel caso opposto la loro sostanziale assenza dalla scena educativa, evidente non solo nelle periferie ma anche nel centro delle città, dovremmo sviluppare la coscienza del bene comune: far passare l’idea che il successo di uno non debba provocare l’insuccesso di un altro. In questo senso la scuola dovrebbe porsi come un argine allo sfacelo etico imperante guidando il rinnovamento tecnologico invece di subirlo.