(Foto SIR)

La ricostruzione “è un obbligo al quale le Istituzioni pubbliche sono tenute, non solo verso la popolazione, duramente provata da una immane tragedia, ma anche nei confronti di quanti, attraverso il loro sacrificio, sono diventati ‘sentinelle spirituali’ per la rinascita sociale ed ecclesiale. Va dato atto che molto è stato realizzato, con generosità e competenza, ma va pure rilevato che, nonostante la buona volontà di Soggetti pubblici e di Organismi locali, si sono sommati disguidi e ritardi, causati da alcuni ‘strabismi normativi’ e ‘scompensi burocratici’. Gli approcci omissivi o inadeguati vanno, con onestà, riconosciuti per essere “riparati” e segnalati, per evitare che altri incorrano negli stessi incidenti di percorso”.

foto SIR/Marco Calvarese

Lo ha detto oggi il card. Giuseppe Petrocchi, arcivescovo di L’Aquila, durante la messa celebrata in occasione del 14° anniversario del terremoto (2009) nella chiesa di S. Maria del Suffragio. Il cardinale ha parlato anche di “importanti miglioramenti, strutturali e procedurali varati con progressi incisivi e promettenti” e ribadito, nel contempo, che “la ricostruzione non è solo opera ingegneristica e amministrativa, ma anche etica, culturale e sociale. Non basta rifare le strutture architettoniche e murarie, ma si deve pure riedificare la comunità: nella dimensione spirituale, economica e civica. Per restaurare bene le pareti delle abitazioni e le pubbliche pertinenze, occorre prima ricostruire le case nel cuore della gente: con i mattoni della fiducia e il cemento della concordia”. In questo orizzonte, ha aggiunto Petrocchi, “ancora una volta rivolgo una accorata esortazione perché venga velocizzato il restauro delle chiese: luoghi di culto, ma anche centri identitari e aggregativi”. L’impresa della ricostruzione, secondo il porporato, “non investe solo gli apparati dello Stato, a livello centrale e periferico, ma chiama in campo l’intera comunità, urbana e territoriale. Tutte le polarità, istituzionali e sociali, debbono raccordarsi e operare in modo sinergico, costituendo un ‘noi’ integrale ed integrato. È una missione da non tradire”. In questo ambito il card. Petrocchi ha richiamato “la distinzione tra ‘abitante’ e ‘cittadino’: cioè, tra chi semplicemente si sente solo residente in un posto, ma non è coinvolto nella storia che viene tessuta in quel luogo; e colui che si pensa ed agisce come soggetto attivo della comunità di cui fa parte. L’abitante alloggia in un contesto sociale, ma non si sente integrato nel vissuto comunitario. Gli abitanti che non si trasformano in cittadini – così come una ‘popolazione’ che non diventa ‘popolo’ – non saranno autentici gestori nell’impostare e compiere una ricostruzione ‘adeguata’, che avanza con impianto globale”. E “popolo” lo è quello aquilano che, “forte dei successi che ha guadagnato nella secolare ‘guerra al sisma’, ha da subito mobilitato il senso di appartenenza della sua gente”.

foto SIR/Marco Calvarese

Più di sette terremoti in 800 anni, di cui quattro disastrosi, nei quali gli aquilani “con straordinario coraggio, sono rimasti sul posto ed ogni volta hanno riedificato le loro abitazioni”. Gli aquilani, “gente tenace e motivata che, grazie alla radicata fede cristiana e a solidi valori umani (collaudati anche dalle asprezze dell’ambiente montano), ha maturato una robusta ‘resilienza’, che li ha ‘equipaggiati’ per affrontare e vincere gli attacchi minacciosi del terremoto, senza mai indietreggiare. Sulle incursioni distruttive delle calamità hanno prevalso l’attaccamento al territorio, la fedeltà alle tradizioni e la volontà di ripartire, con la irremovibile convinzione di potercela fare. Si tratta dell’atteggiamento paziente ed intrepido di un popolo che si riconosce nelle parole ascoltate dal profeta Isaia: ‘Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso’. La lezione del terremoto – ha concluso il card. Petrocchi – va pensata con crescente profondità e resa motivo di saggezza, perché diventi risorsa per tutti. Lo dobbiamo a noi stessi e alle comunità sorelle, colpite da avversità catastrofiche simili alla nostra”.

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