Di Alberto Baviera
“In Italia molto spesso si asseconda e cresce un’economia trasandata, incline alla sospensione della dignità; c’è ancora troppo lavoro part-time involontario soprattutto tra le donne, tantissimo lavoro grigio. Tendenzialmente un’economia che non scommette sulla qualità non ha molto futuro. Non ci si può preoccupare solo di creare Pil. Ovviamente c’è anche chi fa eccellenza, aziende che spesso investono sul welfare, sulla conciliazione, su contratti stabili, sulla partecipazione dei lavoratori. Il Paese deve prendere esempio da queste realtà, cercando di favorirle”. Questo il quadro che Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale delle Acli con delega al Lavoro e al Terzo settore, traccia al Sir in occasione del Primo Maggio, Festa dei lavoratori.
Come recita la Costituzione, di cui quest’anno si festeggiano i 75 anni, “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Nell’attuale contesto, è ancora così?
Certo! Perché, anche se non ci siamo ancora ripresi completamente dalla crisi dovuta alla pandemia, c’è sicuramente una forza del lavoro che produce, che fa innovazione… Ma non dobbiamo dimenticare che questo avviene con grandi difficoltà e disparità e che
le condizioni di lavoro si stanno progressivamente impoverendo.
Dunque, se da un lato il lavoro ancora regge e fa progredire il Paese, dall’altro questo avviene ad un costo molto elevato per una fascia crescente di persone, soprattutto donne e giovani.
Nei giorni scorsi come Acli avete promosso l’incontro “Lavorare pari – dati e proposte sul lavoro tra impoverimento e dignità”. È il lavoro povero l’emergenza di questo tempo?
Sono sempre più diffuse le situazioni di lavoro mal pagato che non danno alle persone la sicurezza di poter “assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, come afferma la Costituzione. Se è vero che sono aumentati rispetto al 2019 gli occupati bisogna tener presente che nel 2022 il Paese ha avuto una spesa pubblica che è cresciuta di oltre 140 miliardi (con un disavanzo prima degli interessi di 70), cifra che avrebbe dovuto portare a ben altri numeri per l’occupazione. Va inoltre ricordato che siamo l’unico Paese in Europa nel quale i salari negli ultimi 30 anni sono diminuiti mentre in Francia e in Germania sono saliti del 30%.
Nel nostro Paese sono cresciute le condizioni di lavoro povero, di bassa qualità, sottopagato. E ciò è successo anche per i lavoratori autonomi: tra le partita Iva individuali la percentuale di lavoro povero è superiore al 17%, maggiore che il 13% generale.
Tutto questo, ovviamente, si ripercuote sulla qualità di vita…
Dai dati dei nostri Caf emerge che
c’è un 30% di persone che vive sotto la soglia che se non è di povertà è sicuramente di vulnerabilità.
Situazione nella quale se si decide di avere un figlio in più o qualcuno in famiglia si ammala in modo grave si rischia di cadere nella povertà. Tra le donne, la percentuale sale addirittura al 40% e tra le under 35 è quasi del 50%; al Sud è anche peggio. Il lavoro impoverito blocca e impoverisce il Paese perché riguarda soprattutto le famiglie più povere, che non possono fare investimenti in figli, che rinunciano spesso alle spese sanitarie e le riducono per l’istruzione dei figli.
È ancora aperto il dibattito sul salario minimo. Voi cosa ne pensate?
Vanno resi vincolanti per tutti i contratti maggiormente rappresentativi.
Per il salario minimo non serve una nuova legge, ci sono già normative che di fatto lo prevedono.
Come nel Terzo settore, dove con la riforma si è previsto che le nuove assunzioni devono rispettare i minimi salariali, con riferimento ai contratti maggiormente rappresentativi. Perché non può essere fatto per tutti i settori? Certo, siccome negli ultimi anni non sono cresciuti tantissimo, bisogna prevedere penalizzazioni laddove non ci sono rinnovi contrattuali e si ritarda troppo il rinnovo. Chiediamo poi che venga elaborato ed introdotto un Indice delle esistenze libere e dignitose per misurare quando le condizioni di lavoro sono effettivamente rispettose di ciò che chiede la Costituzione circa le retribuzioni.
L’Italia deve avere l’ambizione che i posti di lavoro – siano essi pubblici o privati, subordinati o a partita Iva – consentano ai lavoratori non solo di vivere al di sopra della soglia di povertà ma anche di mettere al mondo dei figli, di poter risparmiare, investire, alimentare una pensione complementare.
Per questo, sia sul fronte del welfare sia su quello dell’economia, dobbiamo competere con Paesi come Francia e Germania nei quali si spende di più nel welfare e c’è più investimento nel lavoro.
Il Pnrr dovrebbe essere un’occasione da non perdere anche su questo fronte…
E invece non ci sono notizie che, in tutti i bandi previsti, venga rispettata la clausola sociale che comporta l’assunzione di un certo numero di donne, giovani e disabili. Attorno all’indotto pubblico si può fare moltissimo per avere contratti solidi, non al massimo ribasso, e per
fare spazio ad un’economia che includa quei soggetti che fanno più fatica ad integrarsi nel mercato del lavoro.
E poi è necessaria un’altra cosa…
Quale?
Vanno fatti più controlli perché in molti contesti – filiere e catene di valore – l’economia vive di sospensione della legalità. Servono controlli mirati, non burocrazia. È inutile che continuiamo a dirci che ci sono troppi morti sul lavoro: questo avviene perché in tante situazioni ci si gira un po’ dall’altra parte purché l’economia vada avanti. E i numeri drammatici sono la punta dell’iceberg dell’economia trasandata, sommersa.
Oggi il Governo dovrebbe varare un decreto che, secondo le anticipazioni, prevede un ulteriore taglio del cuneo fiscale per tutti i redditi lordi fino a 35mila euro…
Intervenire sul cuneo fiscale è importante. Il punto, però, è che il maggior beneficio lo ottengono coloro che già guadagnano di più. Complessivamente, però, è come dare ossigeno ad una persona che fa fatica a respirare; un intervento che tiene in vita ma se non si interviene sulla malattia dare solo ossigeno non è sufficiente.
Ridurre il cuneo fiscale dà un po’ di ossigeno ma senza prospettiva.
Come avviene con i bonus, ai quali negli ultimi anni si è fatto ampio ricorso.
Serve invece fare interventi chirurgici, considerate anche le risorse limitate, come premiare un po’ di più quell’economia che prova a scommettere sull’innovazione e sull’alleanza tra produzione di qualità e condizioni di lavoro di qualità.
Secondo noi questo potrebbe sbloccare il Paese.
Tra le 10 proposte che avete lanciato nei giorni scorsi una riguarda anche l’istruzione…
Sono diversi gli aspetti. Innanzitutto ribadiamo che è importante diffondere la formazione professionale in tutto il Paese, perché questa esiste di fatto solo nel Nord d’Italia con tassi del 70-80% di inserimento lavorativo. Ma bisogna che le Regioni, quando riconoscono gli enti, accettino solo quelli che applicano certi contratti; va poi rinnovato il contratto della formazione professionale. Sul fronte della scuola,
va rimesso al centro il tema dell’educazione: la crisi legata alla pandemia, purtroppo, è stata solo in parte l’occasione per tornare ad investire sulla scuola, che deve tornare ad avere una missione educativa; molte situazioni di “neet” sono esistenziali prima ancora che legate ad un’istruzione più o meno tecnica.
Di fatto oggi non esiste l’orientamento scolastico, i ragazzi sono lasciati soli mentre sarebbe necessario un lavoro personalizzato su ciascuno di loro per capire che tipo di carriera scolastica e poi lavorativa desiderano. Laddove – e non mancano gli esempi di eccellenza – si investe nella capacità dei ragazzi di lavorare insieme e di cooperare sulla dimensione educativa i risultati positivi si vedono. Non dobbiamo dimenticare che
è l’educazione che fa crescere il Paese, la democrazia, la capacità delle persone di dare vita alla vita.
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