Di Daniele Rocchi
14 maggio 1948 – 14 maggio 2023: Israele compie 75 anni. Una data importante che, purtroppo, viene celebrata in un clima un po’ pesante, con il Paese segnato da tensioni interne, con scioperi e proteste contro la riforma della giustizia, e una serie di attentati terroristici compiuti in un contesto di rinnovate ostilità in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Non mancano però anche le sfide dall’esterno, che non sono solo la questione palestinese o il nucleare iraniano, ma anche l’accordo tra Iran e Arabia Saudita, mediato dalla Cina, che rischia di ridimensionare gli “Abraham Accords” del 2020, firmati tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan. Nonostante le guerre con il mondo arabo, il terrorismo, il risorgente antisemitismo e il negazionismo, il sogno di Theodor Herzl, il fondatore del sionismo moderno, non si è mai spento, anzi è cresciuto. Così come sono cresciute le relazioni diplomatiche tra Israele e la Santa Sede. In occasione del 75° anniversario della fondazione di Israele abbiamo chiesto all’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Raphael Schutz, di fare il punto sulle relazioni tra il suo Paese e il Vaticano.
Ambasciatore, Israele compie 75 anni e in questo tempo ha stabilito relazioni diplomatiche con molti Stati, tra questi anche con il Vaticano. Con la Santa Sede si potrebbe parlare di un rapporto “unico”, in cui i temi politici si intrecciano con quelli di natura religiosa. Secondo lei, quali sono i tratti particolari che caratterizzano le relazioni tra Israele e la Santa Sede?
Le relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e Israele fanno parte di un fenomeno più ampio: la trasformazione dell’approccio della Chiesa cattolica nei confronti dell’ebraismo e degli ebrei. Come tutti sappiamo, la prima pietra di questa trasformazione è stata posta nel 1965 con la dichiarazione “Nostra aetate”. Si è trattato di un mutamento epocale di natura teologico-religiosa. L’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra i due Stati nel 1993 è un’importante pietra miliare in questa trasformazione. Con essa si aggiunge un altro strato o dimensione, di tipo politico, il che significa fondamentalmente che lo spirito e il messaggio di “Nostra aetate” non si limitano al livello religioso, ma si completano sul piano politico, con le relazioni tra i due Stati che rappresentano queste due religioni.
Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco: i viaggi apostolici dei Pontefici possono definirsi una “diplomazia dei gesti”: c’è un gesto in particolare che può essere preso come esempio della profondità del rapporto tra Israele e la Santa Sede?
Certo, tutte le visite citate sono state storiche, ma se dovessi scegliere un gesto in particolare, la mia scelta ricadrebbe su Papa Francesco che, durante la sua visita del 2014, ha reso omaggio a Benyamin Zeev Herzl, recandosi sulla sua tomba a Gerusalemme e deponendovi una corona di fiori. Come è noto, Herzl è considerato il padre del sionismo politico moderno, che ha previsto e promosso l’idea e la creazione di uno Stato che diventasse la patria degli ebrei. Il gesto di Papa Francesco rappresenta, a mio avviso, il riconoscimento cristiano-cattolico che “Nostra aetate” non riguarda solo la legittimità religiosa dell’ebraismo, ma abbraccia anche l’autodefinizione politico-nazionale del popolo ebraico nella forma dello Stato di Israele.
Quale altro contributo ha dato il documento conciliare Nostra Aetate (1965) al consolidamento di queste relazioni?
Nella mia risposta alla prima domanda ho già citato “Nostra aetate” come caposaldo di un cambiamento epocale nel modo in cui il cattolicesimo vede e considera l’ebraismo. Una prima pietra è naturalmente molto importante, ma è un inizio, su cui si deve costruire un edificio. Questo edificio non è ancora completo. Alcuni elementi importanti sono stati aggiunti dopo il 1965, tra cui le visite papali alla Sinagoga di Roma e in Israele, le relazioni diplomatiche, il dialogo religioso in corso, ma c’è ancora del lavoro da fare.
Si riferisce forse anche ai negoziati sulle questioni economiche e fiscali? La Commissione bilaterale permanente di lavoro tra la Santa Sede e lo Stato di Israele si è riunita più volte negli ultimi anni per continuare i negoziati basati sull’articolo 10 §2 dell’”Accordo fondamentale” tra la Santa Sede e lo Stato di Israele del 1993. La situazione adesso sembra allo stallo.
L’accordo economico bilaterale non ancora concluso fa parte di questo percorso. Negli ultimi anni abbiamo sofferto, da un lato, del Covid-19 che ha quasi paralizzato molti aspetti della nostra vita, compresa la diplomazia. Dall’altro lato, siamo entrati in una fase di crisi governativa in Israele, con non meno di cinque campagne elettorali in un breve periodo di tempo. Questa sfortunata combinazione ha influenzato anche i colloqui sull’accordo economico. Spero che potremo riprenderli al più presto e portarli a una conclusione positiva.
Ci sono temi di comune interesse che, secondo lei, richiedono una sempre maggiore collaborazione tra Israele e la Santa Sede in futuro? Mi riferisco alla lotta contro l’antisemitismo e tutti i tipi di razzismo e intolleranze religiose, alla promozione di scambi culturali, alla crescita dei pellegrinaggi cristiani in Terra Santa…
Tutte le questioni citate nella sua domanda sono ovviamente importanti. Su tutti questi temi sono già in corso attività di ogni tipo. Ma sono fortemente convinto che dovremmo impegnarci per ampliare la portata e lo spettro della nostra cooperazione bilaterale. Papa Francesco ci ha semplificato la vita, nel senso che non dobbiamo sforzarci di andare alla ricerca di nuove questioni. La risposta è davanti ai nostri occhi: si chiama “Laudato si’” e “Fratelli tutti”. Queste due encicliche hanno molto in comune con il principio ebraico del “TIkun Olam” (riparare il mondo). Oggi in Israele questo principio si esprime nel fatto che il Paese è un centro di tecnologie all’avanguardia in campi come il trattamento dell’acqua, gli alimenti del futuro e altri ancora che sono molto pertinenti alla visione del Papa.
Purtroppo sono aumentati anche gli attacchi alle comunità cristiane, come non si era mai visto in passato, e che hanno provocato le denunce dei leader cristiani della Città Santa. Come reagire a questa deriva di intolleranza che mina le relazioni tra Israele e il Vaticano?
L’unico modo per reagire agli episodi di violenza di ogni tipo è combatterli, condannarli, trovarne gli autori e punirli severamente. La violenza di matrice religiosa non fa eccezione. Alcuni teppisti potrebbero pensare che l’attuale congiuntura politica in Israele li autorizzi a compiere le loro malefatte. Si sbagliano. L’impegno di Israele per la libertà di culto è forte come lo era prima.
Ritiene ancora possibile la soluzione dei “due Stati per due popoli”, tanto cara alla Santa Sede, per risolvere il conflitto israelo-palestinese?
Credo che dovremmo parlare di princìpi piuttosto che concentrarci su una definizione o una formula concreta. Per me, non solo come diplomatico ma anche a livello personale, due princìpi sono di primaria importanza. Uno è che Israele possa continuare a esistere come Stato che è contemporaneamente sia una democrazia pluralista sia la patria del popolo ebraico. Il secondo è che anche i palestinesi dovrebbero realizzare le loro aspirazioni civili e nazionali. Dobbiamo essere di mente aperta e creativi nella ricerca di una soluzione che soddisfi questi due princìpi.