SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Proseguiamo la rubrica di interviste ai pescatori della nostra Diocesi attraverso i quali vogliamo conoscere meglio la Marineria di San Benedetto del Tronto, le sua ricca storia, le difficoltà contingenti e i sogni per un futuro possibile. È la volta oggi di Filippo Del Zompo, Sambenedettese doc da generazioni, 49 anni, sposato con Laura, da cui ha avuto due figli: Francesco Maria e Davide, rispettivamente di 13 e 9 anni.
Quando e come ha iniziato questo lavoro?
Fin da piccolo ho sentito un grande amore per il mare che mi è stato trasmesso dall’ambiente in cui sono cresciuto. Mio padre, insieme ai miei zii, aveva un peschereccio ed era consuetudine per loro, durante l’estate, eseguire dei lavori di manutenzione. Io allora andavo al porto a dare una mano: partecipavo con entusiasmo insieme ad alcuni cugini, facendo quello che era nelle mie possibilità. Non mi piaceva la vita del marinaio che, all’epoca di mio padre, era molto più faticosa di adesso, in quanto la tecnologia ancora non aveva raggiunto grandi livelli di conoscenza, quindi il lavoro comportava una grossa fatica fisica e l’obbligo di restare lontano da casa tanti giorni. Del resto non credo piacesse neanche a mio padre, il quale non lo aveva scelto, semplicemente gli era capitato. Nel secondo dopo guerra, infatti, quando la povertà attanagliava tutte le famiglie italiane, mia nonna, già a 7/8 anni aveva mandato mio padre con alcuni pescatori, non certo per lavorare, ma per essere sfamato. Era un’abitudine di molti all’epoca: non potendo provvedere a tutti i figli, alcuni venivano mandati sui pescherecci, così da poter mangiare un po’ di pesce a bordo. Mio padre, dunque, si era ritrovato in quel mondo quasi per sbaglio e non desiderava che anche io facessi i sacrifici che lui aveva dovuto sostenere. A me tuttavia il mare affascinava proprio, non tanto per l’attività di pesca, bensì per le navi in genere. Per questo motivo ho deciso di intraprendere gli studi per diventare Padrone Marittimo, così da poter divenire Comandante di un’imbarcazione. Dopo i tre anni all’Ipsia di San benedetto del Tronto, mi sono iscritto all’Istituto Tecnico Nautico Antonio Elia di Ancona, dove ho frequentato ancora due anni per il divenire Allievo Comandante di Lungo Corso. Quando ho terminato gli studi e anche il Servizio Militare Obbligatorio, avevo 21 anni. All’epoca, per poter proseguire la carriera e registrare la Patente Nautica, era necessario compiere almeno un anno di navigazione fuori dagli Stretti. Io allora ho preso un aereo per Dakar, dove mi sono imbarcato, come Allievo Comandante, con l’Excalibur (ex Amoruso IV) della ditta Marchegiani e Mosca. Il primo viaggio è durato oltre tre mesi, così come anche i successivi.
Com’era la vita a bordo di un peschereccio che si dedicava alla pesca oceanica? Come si svolgevano le sue giornate?
Io lavoravo al fianco del Comandante Nico Mariano. L’esperienza di lavoro in sé è stata molto bella, formativa, entusiasmante, a tratti sorprendente. Mi affascinava il tipo di pesca e anche il pescato, completamente diversi dalla mia esperienza in Adriatico. Noi, in Italia, eravamo abituati alla pesca a strascico, mentre lì abbiamo praticato la pesca alla francese, una tecnica molto diversa dalla nostra che non prevede l’uso di una sola grande rete, bensì di più reti piccole, anche sei o otto. Anche il mare è diverso laggiù: il fondale non è uniforme, bensì presenta molti avvallamenti. Queste reti, essendo più piccole, riescono ad adattarsi meglio alle forme del fondale e sono quidni maggiormente catturanti per il pesce. Ricordo anche la varietà di pescato che era molto diversa da quella a cui ero abituato: aragoste, gamberi, pesci palla, qualche piccolo squalo, murene, pesce africa. Poiché restavamo in mare per molti mesi, il pesce veniva lavorato direttamente a bordo, quindi inscatolato e congelato: una parte era destinata al mercato locale, quello senegalese, e una parte al mercato italiano. Alcuni tipi di pesce in Italia o non erano commercializzabili o erano sconosciuti e quindi non apprezzati. Ricordo inoltre un mare molto diverso dal nostro. Le acque italiane sono di un verde inconfondibile, mentre laggiù sono azzurre, a tratti di una tonalità più intensa a tratti più tenue. Il mare poi è pulitissimo: qui da noi capita sempre di tirare su, insieme al pesce, anche uno scarpone, un barattolo, una bottiglia; in oceano assolutamente no.
Insieme a questi meravigliosi ricordi, però, purtroppo ho anche ricordi meno belli. Prima di tutto il caldo bestiale che facevo fatica a sopportare. Una volta terminato il mio turno al fianco del Comandante, certamente non potevo mettermi a prendere il sole! O dormivo o leggevo. Qualche volta andavo a vedere quello che succedeva sul ponte: il momento in cui i pescatori tiravano su le reti, in particolare, era per me il più emozionante, perché non sapevi mai cosa venisse su e quali pesci colorati e sconosciuti fossero stati catturati.
Il mare inoltre mi suscitava un grande senso di nostalgia, sia di casa sia degli amici. Mentre i miei coetanei trascorrevano molto tempo in discoteca o in compagnia in spiaggia sotto l’ombrellone, io ero lì, in mare aperto, lontano dalla mia famiglia e dai miei amici. Per comunicare con qualcuno, non c’erano i telefoni, bensì la radio, e la procedura da seguire era abbastanza complessa: il Comandante si collegava con Roma Radio che, a sua volta, mi metteva in contatto telefonico con la mia famiglia o con la persona con la quale volevo parlare. Mentre lo facevo, quindi, c’era più di una persona che ascoltava le mie conversazioni: più che una chiamata era una conferenza! Questo mi metteva notevolmente a disagio. Inoltre le chiamate erano settimanali, quindi vivevo anche l’ansia dell’attesa e della risposta: è capitato qualche volta che io mi sia collegato e dall’altra parte non ci sia stato nessuno. In quei casi ho dovuto riprovare più volte, finché non ho trovato qualcuno dall’altra parte. Questo fatto mi rendeva molto triste: non poter parlare con riservatezza a qualcuno a cui vuoi bene e di cui ti fidi ciecamente, mi faceva provare una grande solitudine, nonostante avessi molti colleghi intorno a me che vivevano la stessa situazione.
Ricordo che una volta siamo stati fuori per sei mesi e siamo stati anche arrestati. Un’esperienza che mi ha colpito molto, anche perché avevo solo 22 anni e poca esperienza. Mentre eravamo in mare a pescare in Guinea Bissao, all’improvviso sono arrivate alcune motovedette, si sono affiancate al nostro peschereccio e ci hanno intimato di tirare su le reti e di seguirli. Ci hanno scortato fino al porto della capitale, ConaKry, dove siamo rimasti alla fonda, ovvero al centro del porto, ma lontano dalla riva, con i militari armati a bordo, in attesa di chiarire la situazione. Personalmente non sapevo cosa fosse successo, nessuno aveva informazioni a bordo, se non forse il Comandante, il quale però non ci ha mai rivelato nulla. C’era sicuramente un problema legato ai permessi di pesca, ma non ci sono state date spiegazioni. Questo episodio mi è rimasto molto impresso nella mente, perché è durato numerosi giorni. Una volta, che ci hanno fatto scendere dal peschereccio per farci respirare un po’ l’aria della città, sono rimasto profondamente colpito dalla corruzione che vi vigeva e dall’estrema povertà, anche se ho trovato un sorriso allegro ed autentico sul volto di tutte le persone che ho incontrato. Una contraddizione che ancora oggi mi segna il cuore.
Per quanto tempo è durata l’esperienza della pesca oltre lo Stretto di Gibilterra?
In seguito all’anno obbligatorio di pesca fuori dagli Stretti, soprattutto per la grande nostalgia di casa, ho deciso di dedicarmi alla pesca nell’Adriatico come Comandante sul peschereccio Giovanni Padre. Qui la situazione era sicuramente meno interessante, più di routine, però avevo il grosso vantaggio di essere vicino a casa. Trascorrevo quattro giorni in mare e tre a terra, quindi una situazione conciliabile con la famiglia, le amicizie e i primi amori. Avevo 23 anni. Dopo un anno come dipendente, un mio zio è andato in pensione e io ho preso il suo posto. Dopo un paio d’anni ancora, ho deciso, insieme a mia sorella Elvira e a mio fratello Benedetto, di acquistare un peschereccio tutto nostro. Quindi dal 1999 in poi mi sono ritrovato come Comandante sul pescherecchio di famiglia, insieme a mio fratello che faceva il motorista, a mio cognato Marino che faceva il capopesca e un ulteriore marinaio che aiutava nelle operazioni di pesca.
È proprio in questi anni che ho conosciuto quella che poi è diventata mia moglie, Laura, che nella vita fa l’architetto e dalla quale ho avuto due figli. Il secondo frequenta ancora la Scuola Primaria, quindi ha ancora tempo prima di decidere quali studi intraprendere alle Superiori. Il primo, invece, a breve affronterà gli esami di Terza Media e si è già iscritto all’Istituto Alberghiero. Io ne sono molto felice. Voglio che nessuno dei due scelga la vita sacrificata del mare. Anzi io stesso sto pensando di abbandonare la vita in mare.
Perché vorrebbe abbandonare la vita in mare?
Come ho detto prima, io personalmente non ho scelto questo lavoro, bensì mi è capitato. È stata una scelta obbligata, dettata dalle aspettative che tutti intorno a me avevano. Nel mondo della pesca è importante proseguire determinate tradizioni. So che molti colleghi mi criticheranno per le parole che sto dicendo, ma voglio essere onesto con tutti, soprattutto con me stesso. Io, a differenza di altri, non sono mai stato innamorato del mare: ne ho conosciuto i lati belli, ma anche gli aspetti negativi. Oggi, alla soglia dei cinquant’anni, ho valutato che, per la mia vita, sia meglio abbandonare. Ritengo che siano tre gli aspetti del lavoro che incidono particolarmente sul nostro modo di vivere: il tempo trascorso al lavoro, il denaro che guadagniamo e la qualità della vita che i primi due aspetti ci permettono di avere. In questa parte della mia vita, vorrei trascorrere più tempo con la mia famiglia, vedere crescere i miei figli e tornare a casa ogni sera, una sensazione che non ho mai potuto provare in passato. Per 30 anni ho fatto un tipo di vita, ora vorrei farne un’altra. È quindi mia intenzione ritirarmi, anche per onorare una promessa fatta a mia moglie 15 anni fa, quando ci siamo sposati, e – si sa – le promesse vanno mantenute. Attualmente sto sviluppando un’attività (tra l’altro adattissima a tutti) in cui credo e che spero potrà darmi quello che cerco, cioè tempo libero, sicurezza economica e qualità di vita. Non so cosa mi riserverà il futuro, ma so che voglio ogni sera tornare dai miei affetti più cari.
Colgo l’occasione per dare un messaggio a tutti i lettori, giovani e meno giovani. Io sto cercando di inseguire i miei sogni ora, a quasi cinquant’anni. Anche se si tratterà di un salto nel buio, voglio provarci. A prescindere dal futuro lavoro che farò, voglio provare a fare qualcosa di diverso. E credo che tutti possano – anzi debbano – inseguire i propri desideri. Ritengo che non sia mai troppo tardi. Non sentitevi costretti a fare qualcosa, perché tutti prima di voi hanno fatto così. Se avete la possibilità di cambiare, fatelo. Se svolgete un lavoro che non vi piace, vi sentite imbrigliati. Al contrario, se vi troverete a fare un’attività che vi soddisfa, vi sentirete gratificati e in pace con voi stessi. Abbiate, dunque, il coraggio di inseguire la vostra strada, superando le pressioni e le paure.
Lei è una persona credente, con un passato molto attivo in parrocchia. Qual è ora il suo rapporto con la fede?
Il mondo della Marineria in genere ha molta fede: chi svolge un lavoro rischioso come il nostro, si affida spesso alla Madonna o al Signore, affinché tutto vada bene. Anche io appartengo alla categoria e mi sono sempre affidato a Dio e fidato di Lui. Vengo, inoltre, da una famiglia di credenti: mia madre mi costringeva a partecipare alla Messa domenicale e io lo facevo, non certamente con i salti di gioia, bensì solo per non essere sgridato! Poi, con don Gabriele Paoloni e per un breve periodo anche con don Francesco Ciabattoni, sono cresciuto in Parrocchia, a San Filippo Neri. Per una decina di anni ho anche frequentato attivamente il Gruppo Scout. Dopo una pausa giovanile, con mia moglie ho ripreso a partecipare, anche perché lei da ragazza aveva seguito il cammino neocatecumenale. Per un periodo ho fatto il catechista e sono stato abbastanza attivo per molti anni. Con la maturità di oggi posso dire che la fede è fatta di alti e bassi: a seconda del momento che uno sta vivendo nella propria vita, infatti, si può sentire più o meno vicino a Dio e quindi alla Chiesa, intesa non come Istituzione, ma come Popolo di Dio, quindi vicino ai fratelli.
Quello che ho capito in tutti questi anni è che, anche quando non si ha un compito specifico in Parrocchia, non si smette di essere cristiani. Anzi, a dire la verità, se si è davvero cristiani, ovvero seguaci di Cristo, lo si vede proprio da come si affronta la vita quotidiana. Ogni momento, ogni gesto, ogni scelta, tutto è diverso per un cristiano.
Com’è, dunque, la sua vita quotidiana?
La mia quotidianità da cristiano è fatta di tante piccole cose: la preghiera al mattino e alla sera con mia moglie, il ringraziamento ai pasti per il cibo che abbiamo sulla tavola, la preghiera con i miei figli, soprattutto con Davide che tra poco riceverà il Sacramento della Comunione. A dire la verità, ho anche diverse lacune: in particolare dovrei essere più partecipe alla Messa domenicale che in questo periodo ho un po’ tralasciato. Oltre alle azioni quotidiane, ci sono anche alcune buone abitudini che segnano la mia vita: quando capita, cerco di essere di aiuto nei piccoli gesti, come un po’ di carità ai mendicanti; mensilmente consegno alla Caritas Diocesana del cibo; poi ho intrapreso un’iniziativa un po’ più impegnativa con ActionAid, con cui diversi anni fa io e mia moglie abbiamo deciso di adottare a distanza un bambino in difficoltà. Ma ci sono anche altri modi di donarsi ai fratelli, magari semplicemente facendo parte del bellissimo gruppo di donatori di sangue dell’Avis di San Benedetto del Tronto oppure iscrivendosi all’Aido per essere donatore di organi. Questi sono strumenti per essere utili agli altri, ma anche per sentirsi bene con se stessi, perché si è molto più felici nel donare che nel ricevere. Lo so che si dice “fai del bene e scordalo, fai del male e ricordalo”, però io preferisco il male non farlo per niente e il bene pubblicizzarlo, in modo da stimolare anche altri a fare lo stesso. Del resto un celebre passo del Vangelo di San Matteo dice così: “Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 14-16).
0 commenti