Elisabetta Gramolini
Nelle testimonianze di chi ha ascoltato le lezioni di allora, don Lorenzo Milani appare come un maestro capace di spaziare fra mille argomenti e dedicare minuti preziosi per ciascuno degli allievi che frequentava la scuola della piccola frazione montana. Uno di quei ragazzi è Paolo Landi, già sindacalista della Cisl, fondatore di Adiconsum e autore del libro “La Repubblica di Barbiana. La mia esperienza alla scuola di don Lorenzo Milani”, edito da Libreria editrice fiorentina, che oggi presenta nelle scuole per trasmettere alle nuove generazioni gli insegnamenti del suo maestro. Al Sir, in occasione del centenario della nascita di don Lorenzo, racconta: “Ai ragazzi che incontro faccio l’invito a prendere coscienza dei loro problemi oggi: sono i più emarginati nel lavoro e nella società perché, finché staranno zitti, saranno sempre sulle loro spalle. Lo abbiamo visto con i ragazzi universitari che hanno manifestato davanti ai rettorati per il caro affitto: una volta che sono scesi in strada il governo li ha ascoltati”.
Come è stato il suo primo incontro con il prete di Barbiana?
Ho incontrato la prima volta don Lorenzo a 14 anni. Mio padre chiese di accogliermi perché la scuola era gratis mentre andare a Firenze era un costo. L’idea non mi entusiasmava. Arrivai una domenica, don Lorenzo spiegava il Vangelo sotto la pergola. Rimasi scioccato perché dopo tre ore aveva spiegato solo tre righe ma le aveva arricchite di numerose spiegazioni. La scuola era di 12 ore al giorno, 365 giorni l’anno. Per mio padre era importante che prendessi un diploma ma lui disse che avrei capito che ci sarebbe stato qualcosa di più bello e aveva ragione:
in tre anni a Barbiana ho imparato tantissimo, fra cui le lingue.
Il momento più bello era la lettura del giornale che ci faceva spaziare su vari argomenti. E poi a Barbiana capitavano personaggi diversi: vennero diplomatici, ambasciatori, ingegneri e pure Pietro Ingrao. Sono lezioni che mi sono rimaste impresse per la vita.
Chi era don Lorenzo per lei?
Era una persona solare e, allo stesso tempo, rigorosa.
La cosa peggiore che si poteva fare ai suoi occhi era perdere tempo. È un uomo che si fa prete a 20 anni e che muore giovane, a 43.
E per gli altri chi era?
Per gli altri ragazzi era un secondo padre. All’ora di pranzo prendeva un ragazzo con cui camminava per la strada parlando solo con lui. Questo aspetto pedagogico è sconosciuto ma ritengo sia stato un fatto fondamentale per il successo della sua scuola.
Per il resto del mondo era una figura da criticare.
Per la Chiesa era un esiliato perché da una grande parrocchia in provincia di Prato venne spedito in una campagna isolata con la motivazione che fosse una “campana stonata”. Per la scuola, era un emarginato, dopo le accuse pesanti contenute nel suo libro “Lettera a una professoressa”. Per lo Stato era un condannato a cinque mesi con la condizionale per apologia di reato.Cinquanta anni dopo troviamo una situazione rovesciata: il Papa va a Barbiana, prega sulla sua tomba e lo definisce un profeta e lo riabilita. La scuola cambia opinione, fa una circolare a tutti gli istituti e lo definisce un grande illuminato educatore. E infine lo Stato dedica mille scuole a suo nome.
Come si spiega tutto ciò?
Nel suo libro don Milani denunciava l’uso dello stesso metro di giudizio adoperato per il figlio dell’operaio o del contadino e il figlio del medico, mentre per lui la scuola dell’obbligo non doveva essere un ospedale che cura i sani e respinge gli ammalati, ricordando l’articolo 3 della Costituzione che sancisce l’uguaglianza fra tutti i cittadini.
La sua era una scuola che si fa carico degli ultimi.
La sua denuncia portò una riforma della scuola ma allora la classe docente lo emarginò. Lui diceva: ‘Cari insegnanti, io vi pagherei a cottimo’, ‘allora, vi svegliereste la notte per pensare come insegnare ai ragazzi difficili’. Anche per la società, ha offerto un concetto molto nobile perché insisteva nel dire che, per cambiarla, non bisognava aspettare che il sistema cambiasse. Per tutti noi e per il resto della società, è stato un riferimento importante. Quando uscì il suo libro “Esperienze pastorali”, la Chiesa decise di ritirarlo mentre oggi i suoi insegnamenti sono ripresi da Papa Francesco. Don Milani se vedeva una gerarchia appiattita sul potere, lontana dai poveri, non faceva il diplomatico, ma criticava chiaramente. Era convinto che quando si fa una cosa giusta, anche se rischiosa, non bisogna aspettare l’approvazione del superiore. Per questo si era inimicato la Chiesa, prima di Firenze e poi di Roma. Fin dall’inizio si pone l’interrogativo del problema delle chiese vuote. La sua risposta è che la Chiesa è lontana dagli oppressi e molto appiattita sui privilegi dati dal potere.
È un interrogativo attuale?
Sì, molto e lo stesso Papa Francesco se lo è posto, aprendo il cammino sinodale che è una scelta forte e bellissima.
Che eredità le lascia don Lorenzo?
Ho imparato tantissimo nei tre anni a Barbiana. Il giorno prima di andare a Milano per fare il sindacalista mi consigliò di tenere per un anno la bocca chiusa. Poi passato questo tempo, avrei dovuto dire la mia se non fossi stato d’accordo.
Mi disse inoltre di non seguire mai la demagogia, che crea facili consensi ma non risolve i problemi.
E quale eredità crede lasci al resto della società?
Gli ex studenti hanno tenuto in considerazione la sua lezione cioè che è importante il lavoro così come dedicare del tempo al prossimo.La testimonianza di questo maestro è, da un lato, la forza della parola e dall’altro l’esempio.Il maestro non deve insegnare solo il rispetto della legalità ma anche il senso politico perché le leggi possono essere migliorate. Ai giudici scriveva che l’arma più importante per cambiare le leggi è la parola, che ha forza, se seguita dalla testimonianza. Ai ragazzi che incontro nelle scuole faccio l’invito a prendere coscienza dei loro problemi oggi: sono i più emarginati nel lavoro e nella società perché, finché staranno zitti, saranno sempre sulle loro spalle. Lo abbiamo visto con i ragazzi universitari che hanno manifestato davanti ai rettorati per il caro affitto: una volta che sono scesi in strada il governo li ha ascoltati.