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La Chiesa colombiana parte attiva del processo di pace

(Foto ANSA/SIR)

Bruno Desidera

Un passo fondamentale, forse storico (lo si vedrà nei prossimi mesi) verso un’autentica pace per la Colombia. Ma in ogni caso insufficiente, se una pace integrale, dentro un’autentica giustizia sociale, non sarà perseguita nei territori più periferici e abbandonati del Paese, affrontando le cause profonde di una violenza che dura da decenni. Mentre all’Avana, venerdì 9 giugno, il presidente della Colombia Gustavo Petro e i capi dell’Esercito di liberazione nazionale, ultima guerriglia di matrice marxista attiva in America Latina, firmavano l’accordo per un cessate-il-fuoco di sei mesi, necessaria premessa per un’intesa definitiva, a Cartagena, su iniziativa della Conferenza episcopale colombiana e del segretariato di Pastorale sociale, si incontravano i vescovi delle zone ancora coinvolte in conflitti e violenze, causati da molteplici soggetti: non solo l’Eln, ma anche i dissidenti delle Farc, i paramilitari del Clan del Golfo, bande criminali e narcotrafficanti di ogni tipo.

Una coincidenza che ha il merito di mettere a fuoco che la pace si costruisce, certo, ai tavoli delle trattative, ma anche e soprattutto sui territori.Di questo cessate-il -fuoco aveva certamente bisogno, come l’ossigeno, il presidente Petro: l’obiettivo della “pace totale”, sbandierato lo scorso anno a inizio mandato, rischiava di essere un vuoto slogan, in un Paese dove, dall’inizio dell’anno alla prima decade di giugno, secondo l’ong Indepaz, ci sono stati 44 massacri e sono stati uccisi 72 leader sociali e ambientali, dove le popolazioni continuano a vivere nel terrore e i minori continuano a essere reclutati dai gruppi armati. E il precedente del 2016, l’accordo di pace con le Farc, che ha avuto un impatto certo importantissimo, ma non decisivo, sul conflitto colombiano, deve servire da lezione.

L’accompagnamento della Chiesa. Ha le idee, chiare, su questo padre Rafael Castillo, dinamico direttore del segretariato di Pastorale sociale della Chiesa colombiana. “Le notizie che giungono dall’Avana sono positive – dichiara al Sir -. Il messaggio è che nella ricerca di pace non ci possono essere rinvii, ma che si deve andare avanti con tutte le forze, e parlando con tutti gli attori.Rispetto all’Eln, come Chiesa colombiana confermiamo il nostro appoggio perché il cessate-il-fuoco si mantenga nel tempo. Noi abbiamo la nostra identità e finalità, assicuriamo accompagnamento, aiuto nel discernimento e nell’ascolto paziente e sincero”.

Secondo il sacerdote, particolare attenzione dev’essere posta sui territori:“La pace duratura può nascere solo dal basso. Non è sufficiente il dialogo con i vertici. È un cammino complesso.Per esempio, è da mettere in conto, rispetto all’Eln, che non tutti i capi locali recepiscano immediatamente le direttive. E poi non dobbiamo dimenticare gli altri attori. Il contesto generale, poi, dev’essere di giustizia riparativa e comunitaria, e di attenzione agli incubatori di violenza e ingiustizia, come il narcotraffico, l’attività mineraria illegale, i sequestri e le estorsioni. La cosiddetta ‘pace totale’ si deve cercare con tutti gli attori, e i tavoli di pace devono essere anche territoriali”.L’importanza della dimensione territoriale è emersa con forza all’incontro dei vescovi a Cartagena, i cui si sono state “numerose testimonianze di una missione portata avanti in mazzo al sangue e alle minacce”.

Le voci dalle diocesi. L’opera di accompagnamento, in sinergia con molti soggetti, da parte della Chiesa, viene sottolineata da due vescovi presenti a Cartagena e intervistati dal Sir. Parlando con mons. Israel Bravo, vescovo di Tibú. Nel suo territorio, nel nordest della Colombia (dipartimento di Norte de Santander), ai confini con il Venezuela, si trova la regione del Catatumbo, uno dei luoghi al mondo con la più alta concentrazione di piantagioni di coca e di gruppi armati e criminali. E’, tra l’altro, uno dei “feudi” dell’Eln. “Le notizie sul cessate-il-fuoco che arrivano dall’Avana – afferma – danno certamente speranza. La situazione, però. Nel territorio, resta di grande tensione. È presente una grande varietà di gruppi armati, insieme a numerose attività illegali: il narcotraffico, estrazione illegale di petrolio, miniere clandestine”. Non aiuta, evidentemente, la vicinanza con il confinante Venezuela. “Accanto a questa situazione – prosegue il vescovo – spiccano l’assenza cronica dello Stato e la mancanza di opportunità di sviluppo, soprattutto per i giovani. In pratica, da anni il Catatumbo è terra di nessuno”.

La Chiesa fa tutto il possibile per dare speranza e appoggio alla popolazione:“Cerchiamo di consolidare la nostra presenza, privilegiando l’attività educativa verso bambini e giovani, oltre l’accoglienza dei migranti. Non mancano progetti di carattere sanitario e di sostegno ai campesinos, ai piccoli agricoltori, con l’obiettivo di sostituire la coca con altre attività agricole. La gente di queste zone vuole bene alla sua terra, va accompagnata in iniziative di sviluppo e rafforzamento della democrazia. Ma condizione ineludibile è una presenza reale e continua dello Stato e delle sue istituzioni”.

Altro “epicentro” della coltivazione di coca è il dipartimento del Putumayo, nel sud del Paese, ai confini con Ecuador e Perù. “Nel nostro territorio – spiega mons. mons. Joaquín Humberto Pinzón, vescovo del vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano e missionario della Consolata – l’Eln non è presente, visto che questa guerriglia è forte soprattutto nel Nordest e lungo il Pacifico, a ovest, anche se, naturalmente, la notizia del cessate-il-fuoco ci rende felici. Ma abbiamo vari gruppi della dissidenza Farc (Emc, Iván Mordisco e Nueva Marquetalia), i paramilitari del Clan del Golfo, nel sud della regione un’altra banda criminale, il Commando de la frontiera. In pratica, siamo una delle centrali del narcotraffico, a partire dalla produzione della coca, anche se, per ragioni che non conosco, negli ultimi mesi il mercato della cocaina ha subito un brusco rallentamento”.

Ha destato scalpore, nel Putumayo, quanto accaduto lo scorso 14 maggio: l’assassinio di quattro minori indigeni di etnia murui, che cercavano di sfuggire a un reclutamento forzato da parte della dissidenza Emc-Farc.“Sì, quanto è accaduto fa parte di una realtà che purtroppo è abituale nella nostra realtà così difficile, una pratica che coinvolge tutti i gruppi armati. Si tratta di ragazzi abituati a crescere tra le armi, diventano ‘grandi’ presto, ma con una condizione psicologica che è appunto quella relativa a dei minori. I reclutamenti sono forzati e la diserzione equivale al tradimento. È quanto accaduto le scorse settimane, nonostante la comunità si fosse attivata in difesa di questi ragazzi”. Anche in questo caso, la Chiesa è una delle poche realtà a dare speranza. “I nostri criteri guida sono tre – spiega mons. Pinzón -: anzitutto essere presenti, condividere la vita dei ragazzi, dei giovani, degli indigeni, dei campesinos; quindi, ascoltare; infine dare risposte. Abbiamo in atto alcuni progetti, soprattutto di carattere educativo. Abbiamo anche una scuola per formare leader indigeni e campesinos, oltre a delle mense per andare incontro alle famiglie più povere”.

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