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Pastorale. Mons. Sigalini (Cop): “Dobbiamo preoccuparci affinché la Chiesa sia sempre viva e presenza significativa”

foto SIR/Marco Calvarese

“Ci vorrà un po’ di ‘concentrazione’ e un po’ di ‘prossimità’. La prima per la qualificazione e la formazione delle persone, che non sempre si può fare in loco. Ma non si può imporre alle piccole parrocchie qualcuno che arriva da fuori facendo saltare realtà e collaborazioni in essere”. Così mons. Domenico Sigalini, presidente del Centro di orientamento pastorale, sintetizza al Sir quanto emerso in questi giorni a Lucca nei lavori della 72ª Settimana di aggiornamento pastorale.

Eccellenza, l’interrogativo al centro della tre giorni è stato “Esisterà ancora la comunità cristiana nei piccoli paesi che segue e annuncia Cristo?”. Che risposta è emersa?
La tematica che abbiamo affrontato è piuttosto seria e urgente. Le piccole realtà parrocchiali, nelle aree montane o nelle aree interne, che si ritrovano senza parroco residente sono ancora la Chiesa? Sono il segno di una comunità che vive e annuncia Gesù oppure sono dei rimasugli di emozioni? Vi si trova ancora vita cristiana che si può trasmettere?

In una realtà che anche dal punto di vista sociale e civile è problematica, è importante che ci sia qualcuno che dà speranza.

Due sono le “coordinate pastorali” su cui camminare: la concentrazione e la prossimità.

Iniziamo dalla prima…
Concentrazione significa individuare un polo equidistante e servito in cui riunire le persone utilizzando tempi e spazi soprattutto per la formazione di qualità di quelle persone laiche in grado di portare avanti la comunità indipendentemente dalla presenza del presbitero. Ma a livello centralizzato possono maturare nuove prospettive pastorali.

E la seconda?
La prossimità nasce dalla volontà di non voler lasciare sole queste realtà, che seppur piccole custodiscono qualcosa di buono. Per esempio, quei paesi in cui sono attivi gli oratori: funzionano, fanno attività, sono punto di riferimento per un gruppo di giovani…

Non facciamo morire queste realtà per farle finire in grandi concentrazioni che rischiano dopo anni di esaurirsi.

Come può essere aiutata la comunità credente, nei piccoli centri ma anche nelle grandi città, a maturare superando la logica del “siamo sempre stati abituati così”?
Come cattolici

dobbiamo essere quelli che si preoccupano perché la Chiesa continui e sia sempre viva, anche se non può contare su un sacerdote residente o sulla celebrazione eucaristica tutte le domeniche. Allo stesso tempo, anche ogni piccola comunità deve essere capace di essere significativa per quello che vive.

E laddove c’è vivacità vale la pena aiutarla a crescere, invitando a collaborare, facendo rete in modo tale che nessuno si senta escluso o disperso.

Nelle relazioni si è parlato della necessità di sacerdoti che siano in grado di coniugare restanza ad itineranza, per cui la loro formazione dovrà sviluppare queste capacità.
In alcuni c’è ancora l’immaginario del sacerdote “papa, re, profeta”; ma la figura di “capo” non c’è più. Così come non c’è più il fedele credente di alcuni decenni fa. È importante che nelle comunità ci sia una messa fatta bene, che sia capace di creare eucarestia, quindi comunione tra tutti. Va continuamente ribadita l’idea che

dobbiamo inventare un modo di fare la parrocchia diverso, cioè uno stile diverso di Chiesa che non è più appoggiata soltanto sul prete.

Perché in alcune parti non ci sarà più: ecco perché ci devono essere questi nuovi ministeri che non vengono fatti per clericalizzare i laici ma per responsabilizzarli e metterli in condizioni di essere creativi con la loro carica di fede e di vita.

Ci si dovrà spostare molto sull’ascolto della Parola di Dio, sul servizio di carità, sulla vita di fede e di preghiera. Questo deve aiutarci a vedere la presenza di Gesù, anche laddove il segno sacramentale è nascosto perché c’è, per esempio, nel povero che si aiuta. Questi sono gli elementi che ci fanno cristiani. E poi dobbiamo anche avere il coraggio di difendere la nostra fede.