Di Piero Pisarra
Saccheggi e incendi dal Nord al Sud della Francia. Bruciano le banlieues delle grandi città, devastate per la quarta notte consecutiva. Presi di mira i commissariati di polizia, i municipi, le scuole, i mezzi di trasporto. A Metz è stata incendiata e distrutta una biblioteca. Una violenza nichilista che, come sempre, si ritorce contro i più deboli, aggiungendo ingiustizia a ingiustizia. Seppure in calo, secondo il Ministero dell’interno, il numero degli arresti è ancora alto: più di mille e trecento nell’ultima notte. Settantanove i poliziotti e i gendarmi feriti. E se a far da detonatore è stata l’ingiustizia di troppo – l’omicidio di un ragazzo di diciassette anni, Nahel M., da parte di un poliziotto – la rivolta viene da lontano, dal sentimento di umiliazione di chi abita nelle banlieues, dal razzismo strisciante e da altri crimini passati sotto silenzio: quindici giorni prima di Nahel un altro giovane di origine africana è stato ucciso dalla polizia in circostanze simili ad Angoulême, ma senza i telefonini a filmare la scena. Ora la rabbia che nasce dalla disperazione si estende a macchia d’olio e sono sempre più chiari i bersagli: uno Stato considerato come nemico e la polizia che ne incarna il braccio armato e a cui una legge del 2017 dona poteri di discrezionalità nell’uso delle armi mai avuti prima.
È il fallimento di una politica trentennale. Con molti responsabili e un unico catalizzatore del malcontento generale, l’attuale presidente, visto come un tecnocrate senza cuore, mai così impopolare. E così, anche nell’opinione a lui non pregiudizialmente ostile, aumentano i dubbi.
Liberista in economia e dirigista in tutto il resto. Libertario in bio-etica e sui diritti individuali (vedi la nuova, contestata legge sul suicidio assistito in discussione al parlamento) e refrattario a ogni politica sociale. Quando fu eletto per la prima volta nel 2017 pochi sospettavano che dietro l’enigma Macron si celassero anche queste versioni del famoso “en même temps“, traduzione francese dell’italico “ma anche”. Candidato di centro-sinistra, ma anche di destra, una volta giunto all’Eliseo, Macron è stato costretto a scegliere, in ossequio alla real-politik che non sopporta il “même temps” e le vie di mezzo. Perché anche in un regime presidenziale contano i numeri e le maggioranze. E i numeri imponevano nuove alleanze. Così, dopo aver assorbito il Partito Socialista (ridotto a circa il 2 per cento alle ultime elezioni presidenziali), ha lanciato un’OPA su quel che resta di LR, Les Républicains, il partito di Chirac e di Sarkozy. Se la riforma delle pensioni è stata approvata senza il voto del parlamento – grazie alla procedura prevista dall’articolo 49.3 della Costituzione – si deve anche all’assenso dei Repubblicani… che non hanno votato la mozione di censura delle opposizioni.
La fine del ma anche ha prodotto frutti avvelenati.
Mai un presidente è stato considerato così distante dalle preoccupazioni quotidiane dei Francesi. E mai, nella storia recente, le proteste di piazza sono state trattate con tale brutalità.
L’AFP, la più importante agenzia di stampa francese, non sospetta di simpatie partigiane, ha calcolato che nelle manifestazioni dei gilets gialli, nel 2018 e nel 2019, trecento cinquantatré persone hanno subito gravi lesioni da parte della polizia e trenta di queste hanno perso un occhio: un record per la patria dei diritti dell’uomo. Ma anche questo fa parte dell’enigma Macron e della sua gestione “distratta” dell’ordine pubblico, fin dall’affaire Benalla, dal nome del consigliere per la sicurezza del presidente sorpreso, nel 2018, a pestare, travestito da poliziotto, i partecipanti a una manifestazione. E poi dalla delega in bianco al ministro dell’interno Christophe Castaner e al successore Gérard Darmanin. Ora in molti reclamano la modifica della legge del 2017 che, nella sua ambiguità, dà di fatto ai poliziotti licenza di uccidere. È difficile, però, che basti a fermare la rabbia e le violenze, senza le politiche sociali in grado di dare una risposta al malessere delle banlieues.