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L’elogio della lentezza prima del tempo

Di Marco Testi

La scomparsa di Milan Kundera, che era nato a Brno nel 1929, non significa solamente la perdita di un grande scrittore, ma una frattura nello spazio tempo del secolo breve: i suoi libri, anche il celebre “L’insostenibile leggerezza dell’essere” (1984) rappresentano infatti uno dei quadri più critici, radicali, e nel contempo oggettivi di un tempo in cui la libertà sessuale si scontrava con il presunto eden dei comunismi dell’Europa orientale, in cui l’ideale del sentimento doveva fare i conti con la malinconia dell’abitudine, della disillusione, della materia, della fine.

Uno scrittore grande e però confinato nei limiti del suo tempo, politica compresa? Chi verrà poi, da qui a cinquant’anni, potrà iniziare il pericoloso gioco delle definizioni conclusive o pseudo tali, e però possiamo iniziare a dire che sì,Kundera è stato il lucido, fin troppo, fino alla distorsione dettata dalla melanconia, narratore e poeta di un tempo di disillusioni,in cui i grandi ideali di una società di eguali si sfaldavano sotto i colpi di eserciti chiamati “fraternamente” a rimettere le cose a posto a suon di cannonate e massacri. L’allora Cecoslovacchia (Brno fa parte ora della Repubblica Ceca) era stata teatro di queste contraddizioni, in cui il grande padre interveniva a salvare il comunismo dalle trappole della “finta democrazia borghese”. Il suo essere per le riforme di quel socialismo gli è costato l’esilio in Francia, dopo i vieti di pubblicazione e il licenziamento da docente universitario.
L’amore, il costume, le contraddizioni, il riconoscimento della casualità e della contaminazione delle cose ne hanno fatto uno degli specchi laici di una realtà in cui il dolore, la dimenticanza, l’assenza si annidano dietro i tanto sbandierati sentimenti, i proclami politici, le sorti magnifiche e progressive già aborrite dal nostro Leopardi.E la citazione del recanatese non è qui gratuita. Un evidente scetticismo, il rifiuto di una storia progressiva, la messa da parte degli -ismi, vale a dire dall’appartenenza a scuole di pensiero sedicenti risolutive dei problemi umani sono stati gli elementi portanti del suo essere e della sua scrittura.

Anche se un titolo edenico come “L’uomo è un grande giardino” ha segnato l’ingresso nella letteratura di Kundera, seppure non ancora come narratore, ma come poeta. Già dal titolo di tre sue raccolte di racconti, “Gli amori ridicoli”, che conoscono un certo successo, si intuisce la visione del mondo dello scrittore: uno sguardo impietoso, che va oltre il mostrare all’esterno ed entra dentro le contraddizioni e il non detto delle umane storie.E la storia stessa inizia ad essere vista con il sospetto di insensatezza e dimenticanza.

Nel suo romanzo più letto in occidente, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, divenuto poi film con il regista Philip Kaufman, questi elementi precipitano in una narrazione in cui tradimenti, abbandoni non desiderati ma insensatamente necessari, primavera di Praga e successiva repressione, possibilità di carriera, suo rifiuto e progressivo autoannullamento, in poche parole caduta del senso hegeliano e necessario della storia, quella grande e quella di ognuno, sono gli ingredienti fondamentali.

Ma anche altrove, ad esempio in “La lentezza”, Kundera rappresenta la tendenza alla falsificazione del mondo, con l’attacco anche al pensiero d’occidente ritenuto spesso utopistico e irreale e con la profetica allusione ad una velocità consumistica e volgare e la rivalutazione di una lentezza che significa anche memoria e ricordo, in qualche modo sopravvivenza in un mondo apparentemente privo di quel senso.
La stessa notorietà pubblica era da lui vista come inautenticità, obbligo di replicare una parte preparata di sé, e non la verità.Per questo è vissuto sempre appartato e al di fuori dei palcoscenici anche virtuali che la modernità veloce propone come unica possibilità di affermazione mordi e fuggi. Cosa che, grazie a questa coerenza, non accadrà alla sua memoria.

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