Alberto Baviera
“Quello più colpito direttamente dal blocco è sicuramente il settore dell’allevamento poiché importiamo fondamentalmente mais da mangime”. Ce lo spiega Alessandro Apolito, responsabile Filiere di Coldiretti, con il quale proviamo a capire l’impatto sull’economia agricola italiana del mancato rinnovo del “Black Sea Grain Initiative”, l’accordo stipulato tra Russia, Ucraina, Turchia e Nazioni Unite per consentire il commercio dei cereali lungo le rotte del Mar Nero, nonostante la guerra ancora in corso. Stando ai dati diffusi dal Centro studi Divulga, nell’ultimo anno l’Italia, con il 6,3% complessivo sul totale delle esportazioni ucraine di prodotti agricoli, tra grano, mais e olio di girasole, è risultato al quarto posto dietro Cina (24,3%), Spagna (18,3%) e Turchia (10%) tra i Paesi che più hanno beneficiato dell’intesa scaduta il 17 luglio e di cui, al momento, non pare possibile alcuna proroga.
Nell’immediato come siamo messi?
In Italia ci saranno ovviamente delle ricadute
considerato che nell’ultimo anno abbiamo acquistato dall’Ucraina in totale quasi 2 milioni di tonnellate di prodotti tra mais, grano tenero e olio di girasole.
L’impatto più grande ci sarà certamente per i Paesi nei quali c’è una spesa per la parte alimentare più elevata del 60%. Sono circa 53 quelli che rischiano dal punto di vista della sicurezza alimentare: pensiamo all’area nord del Mediterraneo, in particolare all’Egitto, dove il blocco dell’accordo può provocare anche tensioni dal punto di vista sociale, perché porterà poi all’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità.
Prima di continuare mi faccia però dire una cosa…
Prego.
È un grande problema pensare che venga utilizzato il cibo come un’arma e come uno degli elementi che vengono messi sul tavolo per fronteggiarsi nella trattativa. Tant’è vero che lo stesso Putin s’è poi reso disponibile a donare cereali ai Paesi che “affamerebbe” proseguendo con il blocco dell’accordo sul grano.
C’è già un rischio speculazione per il mancato rinnovo dell’accordo?
La situazione si complica e
certamente si dà spazio alla speculazione.
Anche nei mesi scorsi abbiamo visto che sono bastati gli annunci di un possibile stop a questo accordo per far schizzare subito in alto le quotazioni dei futures presso la borsa di Chicago. Quindi, da un lato dobbiamo fermare sempre la speculazione che è costantemente in agguato, dall’altro dobbiamo cercare di trovare vie diplomatiche per risolvere questioni di questo tipo. C’è poi un terzo punto, che riguarda più da vicino il nostro Paese.
Quale?
Dobbiamo continuare ad
investire di più sulla sovranità alimentare,
(cioè nel mettere al centro il diritto al cibo sano per tutti, riconoscendo e valorizzando il ruolo chiave dei piccoli produttori, contadini e agricoltori, a conduzione familiare e soprattutto dei giovani da cui dipende l’alimentazione del futuro, ndr). Negli ultimi 10 anni, ad esempio, abbiamo perso un terzo della nostra capacità produttiva sul mais,
dovremmo investire su modelli come quelli dei contratti di filiera per poter dare un giusto reddito pluriennale agli agricoltori che garantisca loro di poter coltivare e garantisca al Paese di poter avere cibi e alimenti anche per gli animali in maniera più indipendente rispetto all’importazione.
Negli scorsi anni c’è stata una politica, promossa anche dall’Unione europea, che spingeva ad acquistare sempre dove costava meno:
il Covid prima e la guerra dopo hanno dimostrato che quando poi si interrompono le catene del commercio internazionale, abbiamo grandi problemi e da questo punto di vista crediamo che vada fatto tesoro della lezione appresa.
Soprattutto a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina, il nostro Paese – come altri – ha messo in campo una strategia di differenziazione delle fonti energetiche e di autoproduzione. Sul fronte agroalimentare è mancato questo approccio?
Questi, purtroppo, non sono processi che si tamponano o si invertono né con decreto né in poco tempo. Però, segnali ci sono stati anche grazie all’impegno del Governo italiano: si è ottenuto una serie di semplificazioni di sblocchi di terreni che non erano coltivati e che sono tornati alla coltivazione proprio nell’ottica di tamponare l’emergenza legata alla diminuzione delle importazioni. Poi abbiamo diversificato e quindi le importazioni principali oggi noi le facciamo dall’Europa, quindi sono intracomunitarie. E l’Europa, considerata nella sua interezza è autosufficiente dal punto di vista della produzione cerealicola, ad esempio. Favorire questo tipo di scambi è la cosa più importante da fare.
Anche se non è sufficiente…
Noi chiediamo di investire ancora di più. Nel Pnrr, ad esempio, abbiamo degli investimenti sulle filiere produttive agroalimentari nazionali. C’è un bando che è stato aperto qualche mese fa e che ha registrato un successo oltre ogni aspettativa, perché c’erano 700 milioni di euro a disposizione delle imprese e sono arrivate proposte per 10 volte tanto che varrebbero più di 11 miliardi di investimenti sulle filiere agroalimentari italiane. Pensiamo che
investire risorse del Pnrr in quel tipo di misura consenta di rafforzare la sovranità alimentare nazionale, anche sul lungo periodo. Perché sono investimenti sull’innovazione, sulla ricerca, sulla sostenibilità, sull’adattamento a processi produttivi che siano sempre più performanti anche dal punto di vista ambientale. E che consentano poi ad un Paese di avere la sicurezza alimentare che non è più data per scontata.
Tornando alle ricadute del mancato rinnovo dell’accordo sul grano, quali settori dell’economia agricola nostrana pagherebbero maggiormente?
Quello più colpito direttamente dal blocco è sicuramente il settore dell’allevamento; siccome noi importiamo fondamentalmente mais da mangime, una minore quantità a disposizione comporterebbe degli aumenti ulteriori dei prezzi, tra l’altro già fuori controllo. E se da un lato c’è l’inflazione dal punto di vista generale, non va dimenticato che
dietro ai prezzi anche alti dei prodotti alimentari ci sono sempre agricoltori che non si arricchiscono,
anzi non riescono nemmeno a coprire i costi di produzione. E, in questa situazione, può succedere anche con gli allevamenti. Oggi, rispetto ad un anno e mezzo fa, paghiamo il gas due volte in più. Si tratta di cifre importanti, con le quali difficilmente si riesce a tenere in piedi i bilanci.
E i consumatori a cosa andranno incontro?
Per i consumatori sicuramente ci può essere il rischio di aumenti dei costi legati per esempio all’olio di girasole, che anche in alcuni mesi del primo anno di guerra, è stato addirittura razionato nei supermercati perché non c’era disponibilità. Questo è il prodotto che importiamo di più con un impatto diretto sui consumatori. Altri prodotti potrebbero vedere
un aumento del costo ma legato più ai movimenti speculativi borsistici: se, ad esempio, il grano tenero dovesse avere delle quotazioni molto in rialzo potrebbe impattare sui prezzi del pane, dei biscotti, della farina… Si tratterebbe di una ricaduta di secondo livello che potrebbe essere figlia della speculazione. Noi dall’Ucraina importiamo solo il 5% di quello che è il nostro fabbisogno.