(Foto Siciliani – Gennari/SIR)

Marco Calvarese

foto SIR/Marco Calvarese

Solamente a pensare a quella notte tra il 27 ed il 28 luglio 1993 a Roma, a qualcuno fischiano ancora le orecchie per le esplosioni dei due attentati che portavano la firma dell’organizzazione mafiosa di cosa nostra e colpirono, appena dopo la mezzanotte, prima la basilica di San Giovanni in Laterano e, subito dopo, San Giorgio in Velabro.“Fu impressionante perché la macchina ripiena di esplosivo era sprofondata 5 metri sotto l’angolo tra il Vicariato e la basilica. L’esplosivo aveva creato una deflagrazione straordinaria. L’inferriata della basilica, stiamo parlando di inferriate grandi e spesse, antiche, di quelle pesantissime, era stata divelta e si era spostata all’interno deformandosi. Tutto l’intonaco era bruciato. La parte del muro fatto di mattoni, quello che separava i finestroni dalle finestre del seminterrato, era crollato ma, per grazia di Dio, le mura del ‘500 hanno tenuto, sono mura enormi. I mobili degli uffici del piano terra erano sbriciolati come segatura, se ci fosse stato qualcuno dentro sarebbe stato schiacciato nella parete opposta”.Sono le parole di mons. Marco Frisina, direttore del coro della diocesi di Roma, che nel 1993 era da poco stato nominato direttore dell’ufficio liturgico in Vicariato a Roma, tra i primi a vedere cosa era successo a San Giovanni in Laterano nei giorni seguenti l’esplosione. “Vedere quanto accaduto in basilica mi impressionò molto. Le travi dell’organo Blasi, un organo meccanico del 1598 gioiello dell’organistica rinascimentale da poco restaurato e per fortuna non danneggiato nella sua meccanica, erano entrate dentro la struttura a causa dell’esplosione. Un colpo spaventoso che aveva danneggiato e anche distrutto alcune delle canne, stiamo parlando anche di canne di un certo periodo. Dalle botole che comunicano con gli scavi archeologici sotto la basilica, era venuta fuori la terra che aveva riempito tutto il pavimento.

Ricordo i vetri rotti e tanta distruzione. Quello però che più mi impressionò fu vedere  che l’aureola del Redentore, quella che si trova sull’altare sopra il ciborio, era caduta sui gradini dell’altare stesso, quasi a testimoniare un segno del sacrilegio che era stato compiuto.

I cassettoni dell’aula della Conciliazione, stiamo parlando quindi del primo piano del Vicariato, erano tutti sconnessi, il colpo li aveva disallineati. Insomma, ricordo un’immagine di terribile violenza”. Un racconto della brutalità che ha colpito 30 anni fa la basilica papale e che, come ripete spesso mons. Frisina, solo per grazia di Dio non ha ucciso nessuno sia nell’esplosione delle 00,04, sia anche in quella, 4 minuti dopo, verificati a San Giorgio in Velabro alle 00,08 della stessa notte che causò il crollo del portico antistante la chiesa, l’apertura di una breccia sul prospetto principale, oltre a innumerevoli danni ad intonaci, affreschi interni e  controsoffitto, oltre che dissesti statici alle strutture murarie della chiesa, del campanile e del convento. Un miracolo, l’assenza di vittime, che non era verificato invece con gli attentati che avevano preceduto le bombe di Roma. Quelli di via dei Gergofili a Firenze, avvenuti il 27 maggio 1993 e a causa dei quali morirono 5 persone, un’intera famiglia sterminata, e quello in via Palestro a Milano dove alle 23,14 del 27 luglio 1993 in seguito al quale morirono altre 5 persone, 3 vigili del fuoco, un agente della polizia municipale ed un senzatetto marocchino che dormiva su una panchina.


“C’era un mio collega – ricordando l’attentato alla basilica di San Giovanni in Laterano – che all’epoca abitava lì. Si salvò miracolosamente perché verso mezzanotte, al momento della deflagrazione, non era a letto. Sarebbe stato schiacciato dagli infissi che esplosero letteralmente all’interno della sua camera. Quindi ho dentro l’immagine di una violenza gratuita terribile e, soprattutto, parlando della basilica, anche di un sacrilegio”.Prosegue nel suo racconto mons. Marco Frisina che descrive quel periodo, caratterizzato da attentati e da una violenza che in quei giorni si respirava con forza.“Ho avuto la sensazione che si voleva colpire chiaramente un’immagine forte della Chiesa, un luogo cruciale, nevralgico della Chiesa di Roma e della Chiesa universale. Quindi la prima cosa che ho sentito non è stata la paura ma lo stupore nell’immaginare fino a che punto si può arrivare in questi casi. Fino a che punto si può arrivare anche di violenza gratuita. Al tempo stesso ho capito che bisognava lavorare per una ricostruzione profonda dell’umanità così come del vivere sociale, che facesse rispettare questi valori fondamentali. È stata una sorta di presa di coscienza forte”.

Il pensiero di mons. Frisina torna inevitabilmente al 9 maggio 1993, quando Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento, si scagliava contro la cultura della morte chiedendo loro di convertirsi. “Un intervento memorabile perché sembrava un profeta dell’Antico Testamento. La forza con cui ha proclamato i diritti del Vangelo”, prosegue mons. Frisina sottolineando come quegli attentati fossero il tentativo di colpire la posizione della Chiesa schierata contro la mafia e la corruzione sociale. Il desiderio del compositore è quello che da tanta violenza possa scatenarsi il suo opposto, cioè il bisogno di proclamare la fraternità, la pace, l’incontro, il dialogo, come ricorda il suo brano “La via dei martiri”, creato per il Giubileo del 2000 e dedicato ai martiri storici. “Dopo 23 anni quell’elenco si è arricchito di tanti altri testimoni di ogni tipo” aggiunge mons. Frisina facendo riferimento anche i giudici che hanno dato la vita per combattere le mafie, così come a tutte le vittime dei diversi attentati e riservando l’ultimo pensiero proprio al cammino sinodale in atto, che concede la speranza di una Chiesa più pronta ad affrontare le grandi sfide di questo tempo.“Il Papa capisce che il mondo ha bisogno della Chiesa, ma una Chiesa rinnovata da Cristo, capace di stare sempre dalla parte di chi soffre, dei poveri, dei piccoli. Una chiesa schierata dalla parte della giustizia e della verità, ma anche dalla parte del bello. Insomma una Chiesa che è dalla parte di Dio”.