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Intervista al diacono Pietro Mazzocchi: “Spesso si spendono tante belle parole, ma risultano vuote senza la preghiera”

DIOCESI – Proseguiamo il nostro viaggio alla scoperta dei Diaconi che operano nella nostra Diocesi. Questa settimana abbiamo intervistato Pietro Mazzocchi. Sambenedettese, di professione ragioniere commercialista presso il suo studio a Grottammare, sposato da 39 anni con Luana dalla quale ha avuto tre figli, Mazzocchi dal 2011 offre il suo servizio diaconale presso la Parrocchia Santa Maria della Marina di San Benedetto del Tronto.

Come era il suo rapporto con la fede da piccolo?
Sono stato sempre circondato da persone che avevano una grande fede. Per tale ragione fin da piccolo ho iniziato a svolgere il servizio di chierichetto nella parrocchia di San Giuseppe. Avevo 6 anni. Crescendo mi sono po’ staccato dalla religione, però ero sempre sollecitato dalla mia nonna materna, grande esempio di devozione, che teneva accesi i carboni della fede sotto la brace. Con il passare del tempo, dopo il matrimonio, questa brace avrebbe preso fuoco, in quanto da sposati ci saremmo trovati a vivere una prova molto difficile: la malattia e poi la morte di nostro figlio Flavio. Ecco la storia. Mia moglie è nata in Francia da genitori italiani emigrati per motivi di lavoro. Quando sono rientrati in Italia, l’ho conosciuta a casa di una sua cugina durante uno dei consueti appuntamenti domenicali in cui ci radunavamo con tutto il gruppo di amici. Ricordo che quella domenica stavamo giocando a carte, lei è arrivata e, dopo un po’, si è seduta accanto a me. Ci siamo messi a parlare, anche se non ci conoscevamo affatto! Da quel giorno ha iniziato a frequentare il nostro gruppo e io ho capito di piacerle. Era lo stesso per me. Perciò, senza tante parole, ci siamo ritrovati a frequentarci e ci siamo legati subito così, naturalmente. Dopo quattro anni, nel 1984, ci siamo sposati. Io avevo 27 anni e lei 21. Dalla nostra unione sono nati tre figli: Vanessa, che oggi ha 37 anni; Flavio, che è andato in cielo all’età di 8 anni (oggi ne avrebbe avuti 35); Patrizio, che oggi ha 33 anni. All’epoca frequentavo la parrocchia della Marina, perché con la famiglia ci eravamo trasferiti in quel quartiere: ero quindi tornato nella mia parrocchia natale. Quando abbiamo saputo della malattia di nostro figlio, tramite alcuni amici fortemente credenti presentatimi da mia madre, mi sono riavvicinato alla Chiesa, ricominciando a partecipare alla Santa Messa. Il parroco dell’epoca, don Paolo Civardi, mi ha chiesto di fare il lettore durante la Santa Messa, cercando di coinvolgermi nelle attività parrocchiali. Inoltre mi è stato molto vicino anche come padre spirituale. Avevo molto bisogno di una guida in quel periodo, perché la mia moglie si era spostata a Torino per meglio affrontare le cure per nostro figlio Flavio, mentre io, con gli altri due figli, ero rimasto qui per motivi di lavoro. Le parole di don Paolo mi hanno molto aiutato a superare la paura e il dolore e ad accettare la volontà del Signore.

La prova che ha vissuto con la sua famiglia è stata molto dolorosa. Cosa si sente di dire a chi, come voi, si trova ad affrontare una malattia o un lutto?
Noi abbiamo scoperto casualmente la malattia di nostro figlio. Il pediatra Dott. Patrizio Marcelli, grande professionista e grande uomo, ci diceva sempre: “Quando portate in visita un figlio, venite anche con gli altri due, così do loro una guardatina”. In una visita per Patrizio, il dottore diede un’occhiatina anche agli altri due e ci consigliò di far fare dei controlli a Flavio per valutare lo stato generale di salute poiché, solo guardandolo, aveva notato uno sguardo spento che non gli piaceva. Ci mandò in ospedale dalla moglie, la dott.ssa Guastaferro, anch’ella pediatra, per fare una tac in tempi rapidi. Fu così che scoprimmo che nostro figlio aveva un tumore al cervello. Da lì in poi giunsero anni difficili. Mia moglie si trasferì a Torino con Flavio per seguirlo durante l’intervento chirurgico all’Ospedale Regina Margherita e anche nelle cure successive. È stato devastante, ma abbiamo vissuto tutta la malattia con serenità, anche in contrasto con i nostri parenti che erano sopraffatti dal dolore, come noi, ma lo manifestavano come si usava tra gli anziani: platealmente. Mia moglie ed io, invece, avevamo fatto, insieme agli amici di cui ho parlato prima, un percorso di fede che ci faceva vedere la vita di nostro figlio come un dono, breve ma molto intenso. Con questi amici abbiamo pregato molto il Rosario; insieme ai miei genitori abbiamo organizzato una Novena nella chiesa di Sant’Antonio, perché mia madre è molto devota a questo santo che consideriamo il protettore della nostra famiglia e che ci ha degnato di tante grazie. Il consiglio che mi sento di dare, dunque, riguarda proprio la preghiera: pregare, pregare, pregare.

Tornando alla sua storia, dunque quando e come è divenuto Diacono?
Quando don Paolo è stato trasferito, nella nostra parrocchia è subentrato don Luciano Paci: è in quel periodo che ho scoperto il Diaconato e anche gli studi teologici. Mi sono iscritto all’Istituto di Scienze Religiose ed ho conseguito il Diploma di Magistero. Su segnalazione del parroco, sono quindi stato ordinato Diacono dal vescovo Gervasio Gestori il 22 Gennaio 2011. Il mio Diaconato quindi non è arrivato all’improvviso, bensì è stato la prosecuzione di un cammino di fede già iniziato da tempo. La notizia è stata accolta con gioia sia dalla mia famiglia d’origine sia da mia moglie, che mi ha sempre sostenuto. Anche i figli non mi hanno mai ostacolato, anzi. Per me sono sempre stati la mia gioia e lo sono tuttora. Ora, poi, ho anche un nipote di 6 anni, Riccardo, la luce dei miei occhi, che a settembre inizierà la Scuola dell’Obbligo. Quando al lavoro vivo qualche momento di difficoltà, penso alla famiglia che Dio mi ha donato e subito torna in me la pace. La famiglia è sempre stata un punto di riferimento, sia quella attuale che quella d’origine. In particolare sono legatissimo a mia sorella Giusy. Pensi che, quando i nostri genitori hanno deciso di donarci i loro beni, noi due abbiamo discusso perché mia sorella pretendeva che io avessi più di lei, in quanto maschio primogenito! Mio padre ci ha preso per matti, dicendo che non aveva mai visto due fratelli litigare perché uno volesse dare di più all’altro! A quel punto siamo scoppiati tutti a ridere e ci siamo rimessi alla saggia volontà dei nostri genitori.

Quali servizi ha svolto per la Diocesi in questi anni?
Fin da subito sono stato assegnato alla Marina, non solo perché è la mia parrocchia attuale e di nascita, ma anche perché, prima di diventare Diacono, ero responsabile del Servizio d’Ordine della Cattedrale e Sua Eccellenza Gervasio aveva pensato bene di lasciarmi lì. In questi anni ho collaborato con vari parroci: prima don Luciano Paci, poi don Armando Moriconi, successivamente don Romualdo Scarponi e ora don Patrizio Spina. Mi sono sempre trovato bene. Con don Armando, in particolare, mi sono occupato della formazione dei lettori. Per il resto, non avendo particolari impegni in parrocchia, dopo il lavoro approfondisco i miei studi di Teologia e, come Diacono, cerco di curare i rapporti con le persone. C’è chi viene a chiedermi consiglio quando ha qualche peso spirituale o materiale, magari problemi in famiglia o con altro. Il mio consiglio è sempre lo stesso: la preghiera insistente ed incessante.

Più volte durante l’intervista ha accennato all’importanza della preghiera. Quale ruolo ha avuto la preghiera nella sua vita?
La preghiera è la base della mia vita. Spesso si spendono tante belle parole, ma risultano vuote senza la preghiera. Noi cristiani a volte siamo sciocchi: non preghiamo più, ma pretendiamo che il mondo vada bene! Come può proteggersi l’uomo, se non prega?! La preghiera è scudo, è corazza contro il peccato fonte dei nostri guai. Personalmente non credo che in Italia ci sia una scristianizzazione, nel senso che la gente non crede più. Penso, piuttosto, che le persone si facciano ammaliare dall’effimero e ingannevole presunto benessere che la società oggi ci propina e non diano più importanza alla Santa Messa e alla preghiera, ritenute inutili. Quando poi arriva una difficoltà – e arriva!!! -, si torna da Dio. Se queste persone non credessero, non andrebbero in chiesa quando si trovano ad affrontare un problema! Penso quindi che siamo noi cristiani praticanti che abbiamo smesso di evangelizzare. E, quando dico noi cristiani, intendo non solo il clero. Tutti, infatti, siamo profeti, sacerdoti e re: quindi chiunque dica e pensi di avere fede, dovrebbe fare la propria parte, almeno di profeta e sacerdote. Se non ripartiamo da qui, non andremo da nessuna parte. Dobbiamo essere testimoni seri, autentici, credibili. Spesso siamo chiusi tra quattro mura, in attesa che il mondo si converta! Invece dovremmo andare nelle famiglie, incontro al prossimo. Se un vicino di casa sta male, dobbiamo andare a trovarlo, anche se non lo conosciamo bene. E quando ci chiederà come mai siamo andati a fargli visita, risponderemo che ce lo ha insegnato Gesù. Egli, infatti, ha parlato e ha detto tutto, ma proprio tutto. Ha detto l’essenziale e questo essenziale è tutto. Quando parlo da Diacono, quindi, uso le parole di Gesù, non le mie. E lo stesso faccio, quando parlo da cristiano. Anche quando vediamo qualcosa che non va in un nostro fratello, dovremmo comportarci come insegna il Vangelo, ovvero facendogli notare il suo errore dolcemente, fraternamente ed in privato. Se non ascolta, allora l’osservazione può essere ripetuta amorevolmente davanti alla comunità, affinché egli possa correggersi attraverso le parole ed i consigli dei fratelli nella fede. Spesso invece non interveniamo, prendendoci una responsabilità molto grande di cui dovremo rendere conto un giorno a Dio, se quell’anima dovesse perdersi. Quello che voglio dire è che ogni cristiano deve sentirsi responsabile per sé e per gli altri fratelli.

Qual è oggi la sfida maggiore del Diaconato Permanente?
È innegabile che oggi ci siano meno vocazioni sacerdotali. Quindi, come sua evoluzione naturale, il Diaconato dovrebbe evolversi qui da noi, nello stesso modo in cui già avviene in altre parti d’Italia, in particolare al nord, dove le parrocchie sono affidate ai Diaconi. Tuttavia sto vedendo anche un movimento da parte di alcune frange di Diaconi che stanno spingendo forzatamente verso questa evoluzione, come vantando un diritto. E la cosa non mi piace. Io credo molto nella gerarchia ecclesiastica ispirata dallo Spirito Santo. Perciò credo che questa decisione debba essere presa autonomamente da chi è a ciò preposto, senza influenze o pressioni se non da parte dello Spirito Santo. Come il Sacerdozio, infatti, anche il Diaconato è un dono divino concesso da Dio in virtù di una chiamata. Il nostro, in particolare, è il dono del servizio e il servizio non è un privilegio che va preteso. Se così fosse, saremmo fuori dall’ottica del dono per essere una semplice, vile pretesa umana. La cosa più brutta per un ministro ordinato.

 

Carletta Di Blasio:

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  • Carissimo Pietro, trovo che ciò che hai detto non solo sia saggio, ma a me sembra proprio dettato dallo Spirito Santo. Ti ringrazio