Alberto Campoleoni

Attenzione, camminiamo sulle uova. E’ una premessa necessaria a quanto segue, perché le questioni a proposito di scuola e lavoro sono da tanto tempo oggetto di discussioni e riflessioni diverse e controverse.

Sembra la cosa più ovvia e sensata del mondo. Gli studenti escono dalla scuola e devono (?) trovare sbocco nel mondo del lavoro. “Il Protocollo – precisa una nota di Viale Trastevere – prevede, tra le altre cose, un approfondimento dei percorsi di orientamento dei giovani, della conoscenza sulle nuove professionalità e opportunità occupazionali”. E poi ci sono le dichiarazioni del ministro Valditara e del presidente del Cnel  Renato Brunetta. Il primo sottolinea come si sia compiuto “un nuovo passo verso il superamento del divario tra domanda e offerta di lavoro”. E aggiunge: “La scuola deve porre al centro il futuro dei giovani nel mondo del lavoro: deve aprirsi alle opportunità offerte dal territorio e alla domanda delle aziende, anche attraverso l’insegnamento di esperti, tecnici e professionisti provenienti dal mondo imprenditoriale”. Brunetta, da par suo, sottolinea le caratteristiche del “momento storico”, con i suoi forti cambiamenti (in particolare transizione ecologica e digitale) e spiega che “in questo contesto, risulta fondamentale la capacità del mondo della scuola e dell’istruzione di adattarsi alle nuove esigenze del mondo del lavoro, su cui inevitabilmente si ripercuotono questi cambiamenti”.

Scuola e lavoro, dunque. Ma è corretto l’accostamento senza mediazioni? In altre parole: davvero la scuola deve “servire” al mondo del lavoro?

Tra gennaio 2005 e novembre 2007 una ricerca svolta nell’ambito delle Chiese dell’intero continente europeo e a proposito in particolare dell’insegnamento della religione, offriva provocanti prospettive e riflessioni proprio sul tema scuola-lavoro. In particolare, nel documento finale della ricerca e su sollecitazione speciale dei partecipanti dei Paesi del centro Europa, Germania in prima fila, veniva la considerazione/allarme su “un sistema d’istruzione transfrontaliero, sempre più pesantemente e durevolmente caratterizzato da interessi e criteri di tipo economico. In Europa – così il testo – sono molte le iniziative educative che prendono spunto dall’andamento delle economie di mercato. Basti pensare, ad esempio, agli studi sulla valutazione del rendimento scolastico Timss e Pisa, all’uniformazione dei corsi di studio e dei diplomi universitari a seguito del Processo di Bologna oppure allo European Qualification Framework nel campo dell’istruzione degli adulti. Molte di queste iniziative puntano soprattutto a sviluppare forze lavorative qualificate da poter impiegare in maniera flessibile all’interno dello spazio economico europeo”.

La denuncia è quella di una scuola “piegata” agli interessi del lavoro e dell’economia. Una scuola dove l’insegnamento religioso, ad esempio, gioca un ruolo di sentinella: infatti “ha sempre voluto opporsi al pensiero funzionale dell’economia neoliberale, impegnandosi a favore di un’istruzione che andasse aldilà della mera utilità”, riferendosi a “un concetto di istruzione, che antepone l’integrità del soggetto prima di qualsiasi riflessione sull’utilità”.

Il documento sottolineava per questo il contributo dell’insegnamento religioso, ma a prescindere da questo solleva ancora oggi la questione spinosa: a cosa “serve” davvero la scuola?

Vale la pena una riflessione in più. Magari controcorrente.

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