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Politica e Magistratura, un equilibrio delicato

Tra iniziative del governo (o di singoli esponenti della maggioranza) e notizie di cronaca giudiziaria, il nodo dei rapporti tra politica e magistratura è tornato ad aggrovigliarsi in misura molto vicina al livello di guardia. E’ da almeno trent’anni che con alterne vicende, ma con ciclici ritorni di fiamma, questo nodo pesa sulla vita politico-istituzionale del Paese. Non si tratta di un oscuro sortilegio, quanto piuttosto del risultato di comportamenti e omissioni stratificati nel tempo, così come dell’incapacità di affrontare e risolvere i problemi nella loro specifica consistenza, evitando di calciare la palla in tribuna o di agitare scompostamente le bandiere dell’ideologia ogni volta che ci si trova di fronte a una situazione controversa. Senza voler semplificare in modo ingenuo processi storici assai complessi, facciamo oggi i conti con la crisi di quella cultura della mediazione alta e operosa – un nome per tutti: Aldo Moro – che nei primi decenni della Repubblica ha consentito all’Italia si risorgere dalle ceneri della guerra e della dittatura costruendo un patto costituzionale di grande solidità e affrontando positivamente enormi sfide economico-sociali. Una cultura che, per buona sorte del Paese, trova ancora un autorevole interprete in Sergio Mattarella, non a caso costantemente impegnato a favorire il rientro delle dinamiche politiche nei binari della Costituzione e del preminente interesse generale.
Certo, la polarizzazione estremistica della politica è un fenomeno globale che sta investendo minacciosamente quasi tutte le democrazie e la nostra non fa eccezione. In Italia, tuttavia, il sistema politico soffre particolarmente – e a volte rischia d’incepparsi – per lo scarto con una tradizione di segno profondamente diverso e con un assetto istituzionale il cui corretto funzionamento richiede una strutturale attitudine al dialogo. E’ molto significativo che la Corte costituzionale abbia enucleato, attraverso una lettura profonda della Carta, il principio della “leale collaborazione” tra poteri, un principio che presuppone la loro “separazione” – secondo la dottrina classica delle democrazie liberali – ma la integra e la sviluppa in modo costruttivo. Un principio d’importanza fondamentale che a sua volta presuppone un genuino senso dello Stato e delle istituzioni sotto il profilo formale ma anche dei comportamenti concreti di chi riveste incarichi e funzioni.
In materia di giustizia questo principio dovrebbe incontrare un’applicazione particolarmente attenta e invece, purtroppo, ogni volta che si pone l’esigenza di legiferare in questo ambito o che l’esercizio dell’attività giurisdizionale tocca la sfera della politica, l’equilibrio del sistema va in evidente affanno. In teoria lo schema sarebbe chiaro: il Parlamento fa le leggi, la magistratura le applica nel suo campo. Ma nella realtà il timore incrociato di reciproci condizionamenti fa scattare reazioni difensive e arroccamenti pregiudiziali. Uno spettacolo che agli occhi di tanti cittadini risulta spiazzante e contribuisce ad alimentare sentimenti di sfiducia. Anche perché la polarizzazione estrema del dibattito politico è già di per sé una patologia a cui non bisognerebbe rassegnarsi, ma quando questa polarizzazione coinvolge le istituzioni tutto si complica oltre misura. E non si può contare sempre sull’intervento risolutore del presidente della Repubblica.

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