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Possiamo benedire e benedirci la sera

Giovanni M. Capetta

“Ecco, benedite il Signore, voi tutti, servi del Signore; voi che state nella casa del Signore durante la notte. Alzate le mani verso il santuario e benedite il Signore. Il Signore ti benedica da Sion: egli ha fatto cielo e terra” (vv, 1-3). Con il breve Salmo 134 si concludono i quindici canti delle salite, quanti sono i gradini che il pio israelita percorreva per passare da un cortile all’altro del tempio di Gerusalemme. Abbiamo compiuto questo cammino ascensionale, contenuto all’interno del Salterio come uno scrigno prezioso dentro il più grande tesoro dell’intero libro dei Salmi. Per noi oggi – e così nei secoli per la Chiesa – è un itinerario dello spirito, un’esperienza, appunto, di ascesi. Si tratta di una benedizione finale, un invito per tutti i presenti a benedire il Signore, che si conclude, però, con il riconoscimento che la fonte di ogni nostro “dire-bene” del Creatore e dei fratelli si trova nella benedizione per ciascuno di noi, che Dio stesso ci dona con il suo amore preveniente, esclusivo e gratuito, anticipando e sostenendo ogni nostro sentimento ed azione. “Voi che siete giunti alla sommità della casa del Signore, voi suoi servi, lodatelo e beneditelo”: il salmista si rivolge certo concretamente ai sacerdoti e ai leviti che a loro volta “alzano le mani” sul popolo e compiono la benedizione rituale, ma possiamo considerare questa invocazione rivolta anche a ciascuno di noi, chiamato ad affidarsi totalmente a colui che riconosce come Signore della vita, della sua vita. C’è una pace, shalom, una pienezza che assaporata nel tempio, sul monte Sion, possiamo conservare tornando a valle, nella quotidianità feriale dei giorni che scorrono apparentemente sempre uguali. Possiamo benedire non solo se riusciamo a pregare ogni giorno o vivere l’Eucarestia; possiamo già farlo svegliandoci al mattino, quando mettiamo i piedi giù dal letto; facendo colazione, anche se in cucina ciascuno la fa a ritmi e orari un po’ sfalsati; possiamo benedire la nostra giornata mentre pedaliamo verso l’ufficio, oppure siamo in auto, o in autobus o su un treno urbano per andare a scuola o all’Università. In ufficio preparando un caffè ai colleghi, o cercando di concentrarci su un lavoro ostico; durante un servizio di volontariato, ma anche salutando una persona per la strada e perdendo qualche minuto per chiederle come sta. Possiamo benedire e benedirci la sera, tornando a casa per cena, magari anche se alcuni di noi sono più stanchi, o tesi. Il salmo lo evidenzia: possiamo benedire Dio, anche “durante la notte”; e la mente spazia ad ogni nostra notte: quella della malattia incurabile, della sofferenza cieca, della solitudine esistenziale, la notte del peccato, della misteriosa libertà di non aprire la porta a Gesù che bussa, o quando gli voltiamo le spalle come il giovane ricco. Se anche noi non riuscissimo a benedire in questi nostri momenti bui, ci sia concesso che qualcuno preghi e benedica il Signore per noi e lo invochi di farci sentire ancora più forte il suo amore; questa è comunione nella Chiesa. La saggezza della Liturgia delle Ore, pone questo salmo fra quelli recitati durante la preghiera di compieta del sabato notte, prima che sorga il sole sul giorno della Resurrezione: quale benedizione può essere più grande di quella per la nostra salvezza? “Il Signore ti benedica da Sion”, il salmista usa ora un “tu” che ci commuove: sì, perché è evidente che, in ultima istanza, Dio prima di chiederci di portare la sua benedizione in tutto il mondo, ci benedice personalmente, nella nostra unicità irripetibile. E se riporto questa relazione col Padre a quella con Gesù posso riconoscere che lui si rivolge a me come lo Sposo, quello che – lo ha detto nel Vangelo proclamato ieri – ci dice di andare a lui se siamo affaticati e oppressi, perché egli desidera portare con noi i nostri pesi, affiancandoci sotto lo stesso giogo: appunto “coniugandoci” a Lui. È una notizia infinitamente bella per tutti e ancor più plastica per gli sposi che camminano aggiogati fra loro, ma anche uniti a Cristo che trascina l’aratro della loro storia famigliare e scava un solco da cui nasceranno i frutti di una vita feconda perché fiduciosamente affidata.

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