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Direttore Pompei: “La tragedia di una vita segnata dalla droga”

di Pietro Pompei

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Chiedo venia ai tanti, veramente tanti, che hanno voluto inviarmi affettuosi AUGURI il giorno del mio ottantottesimo compleanno, per aver atteso tanto prima di ricevere un mio modesto GRAZIE! Forse una delle poche parole rimasta italiana in quest’estate confusa per il sovrapporsi di tante iniziative gastronomiche, sportive, folcloristiche, culturali, religiose, ecc.
Attraverso i vostri nomi ho ripercorso tanti momenti della vita con una memoria lucida, anche se condivisa con mia moglie che, nella sua fragilità, sento di amare sempre di più. Anch’io porto le mie. La mia “carrozzeria” (così classifico il corpo) ha bisogno di restauro, per evitare che la ruggine degli anni mi accorci l’esistenza. In questi momenti penso a quando mi porteranno dallo “sfascia carrozze”, ma ancor più quando avrò una macchina nuova promessa. Chiedo a Gesù di aspettare ancora un paio d’anni, così da completare i numeri della tombola, intanto, con la fantasia e con la frequenza delle tante cerimonie religiose televisive giornaliere, di anticipare qualche scampolo di Paradiso. Un verbo mi frulla spesso nel cervello preso dalla Divina Commedia di Dante: “Trasumanar”, ma il continuo mi dà lo stop, perché mi dice che non ci sono parole per spiegarlo, tuttavia al cristiano deve essere sufficiente conoscere la promessa del Vangelo. Noi cristiani dobbiamo sentirci fortunati di trascorrere l’attesa con la prospettiva di un futuro radioso. Al mattino la prima preghiera: “Mio Dio, ti amo con tutto il cuore, Ti ringrazio di avermi creato e fatto cristiano…”. La fede ci riempie la giornata.
Quella del 5 agosto l’ho riempita di ricordi. Tra i tanti ho riletto un’esperienza di molti anni fa che è tornata a commuovermi e che desidero far conoscere attraverso “L’Ancora On Line“, nella speranza che sia utile ancor più dopo aver letto, lo scorso 19 agosto, l’articolo di Silvia Rossetti.
Il treno correva sferragliando monotono, portandosi dietro il suo carico di umanità, fatto di speranze, ansie, delusioni e attese. Avevo trovato, passando da un vagone all’altro, uno scomparto vuoto, ma ben presto mi ritrovai in compagnia di un giovane che, come me, era alla ricerca di una qualche comodità. Eravamo saliti entrambi alla stazione di Bologna e dai primi fugaci sguardi individuammo un qualche elemento di riconoscimento. Fu lui a rompere il silenzio e a chiedermi se lo riconoscessi. Stentai un po’ tra le centinaia di testoline che in tanti anni di scuola in paesi e istituti diversi mi erano passate davanti, ma poi un particolare mi riportò alla realtà di molti anni indietro, quando due gemelli sedevano al primo banco. Oh sì che li ricordavo! Uno estroso e sempre allegro, l’altro taciturno e triste.
E tuo fratello che fa?” Chiesi ignaro di una tragedia di cui stavo riaprendo le porte.
Mio fratello è morto”. Mi rispose il giovane turbato.
Avvertì il mio imbarazzo e la mia incapacità ad aggiungere parola, ed allora proseguì: “È successo da alcuni anni…” Un’emozione improvvisa troncò quelle parole.
Mi feci forza e, notando alcuni grossi libri da una borsa appoggiata sul sedile, cercai di sviare il discorso, chiedendo notizie sui suoi studi. Scoprii così che ***** (rubo il mestiere a Manzoni a causa della privacy) (il nome mi fece tornare in mente anche quello del fratello e dalla loro lettera iniziale che scherzosamente me li faceva chiamare il “Duo A”) studiava presso l’Università di Bologna e che stava per laurearsi.
In quello scompartimento del treno 7303 delle ore 7:50 si stava ricreando quell’ambiente familiare che avevamo lasciato tanti anni prima con tutto il percorso che ci aveva accomunato. Non fu più imbarazzante né per me né per lui tornare sui protagonisti di quel tempo e senza più emozione mi parlò del padre che sicuramente era ad attenderlo; erano rimasti loro due, perché la madre non aveva retto al dolore della tragedia del figlio: “***** come era vivace!” aggiunsi soprappensiero, non volevo certo con quell’esclamazione riaprire un dramma, rivisitare una tomba. Il mio ex-alunno stava combattendo tra la voglia di uno sfogo con il vecchio insegnante e la certezza di soffrire sulla propria carne una tragedia non ancora sopita.
Io glielo dicevo: – *****, non scherzare con queste cose, non dare ascolto a quei compagni, non frequentarli, non stare sempre nella sala da gioco!”.
Una sera che i miei genitori ci lasciarono liberi di uscire, dopo cena andammo al cinema, all’uscita ci imbattemmo con alcuni compagni dei quali io diffidavo e che insistettero per andare in una sala da gioco poco distante”. Si interruppe e fece una smorfia di dolore: “È colpa mia, dovevo andare con lui, invece me ne tornai solo a casa. Nell’attesa del suo ritorno sfogliai nervosamente un gran numero di giornali, avvertivo un disagio indescrivibile. Ogni tanto guardavo l’orologio, e ad ogni rumore, speravo che fosse quello atteso. Quando ormai il sonno stava per vincermi, sentii un gran trambusto alla porta di casa, come di persona in difficoltà. Avvertii in ***** uno sguardo diverso, le pupille dilatate ed umide ed una insolita euforia negli atteggiamenti.
“-*****che hai?” Mi Rispose : “Nulla fratellino caro. Sono felice”. Pensai che avesse bevuto qualche bicchiere di birra, sembrava proprio sotto l’effetto dell’alcool.
“Vai a letto che tutto ti passerà”.
Durante la notte spesso si lamentò e solo verso l’alba si quietò. Al mattino insistetti perché mi raccontasse cosa fosse accaduto la sera avanti ed egli, dopo avermi fatto giurare la più assoluta discrezione, mi confessò che, così, per scherzo, aveva fumato un paio di spinelli.
“Non ti allarmare, fratellino, mi disse, ché sono delle comuni sigarette che non fanno nulla”.
“Il tuo sguardo non mi è piaciuto, ieri sera – replicai – promettimi che non lo farai più, altrimenti…
“E no, fratello caro, le promesse vanno mantenute, tuttavia sarò più cauto”.
Fu l’inizio della tragedia. Incominciò col fumare ogni sera e sempre di più a mano a mano che si abituava allo spinello cresceva la sua insoddisfazione. Era sempre nervoso, non apriva più libro con conseguente lamentela degli insegnanti e dei miei genitori. Aveva iniziato con me ***** ed eravamo già in seconda classe, non riuscì neppure a terminare l’anno scolastico e convinse i nostri genitori ad iscriverlo ad una scuola meno impegnativa. A quel punto spesso litigavamo, diventava talvolta violento nei miei confronti, anche se subito mi chiedeva scusa, scoppiando in un pianto disperato. Allora lo supplicavo di lasciare quella compagnia, di confidarsi con qualcuno che potesse aiutarlo. Babbo e mamma non lo avrebbero capito, preoccupati, come sono molti genitori, di quello che la gente avrebbe detto. Non c’era stato mai dialogo tra noi. Erano interessati solo al nostro profitto scolastico. Gli feci anche il nome di un sacerdote presso il quale, nell’oratorio, avevamo trascorso la nostra fanciullezza. Ma fu tutto inutile.
Una sera tornò quasi trasformato. Non era più nervoso, parlò con calma dei suoi futuri progetti, disse che si sarebbe iscritto ad una scuola professionale per far contento il babbo e che aveva deciso di mettere giudizio. O che gioia provai quella sera! Gli credetti e dormii profondamente, come ormai non mi succedeva da molto tempo. Ma era la quiete prima della tempesta. Ben presto compresi che quella calma era apparente e conseguenza degli effetti della droga. Incominciò con le più leggere; adesso aveva sempre più bisogno di denaro. Riuscì dapprima a racimolare qualcosa vendendo i libri di scuola, poi sottraendo piccole somme dal borsellino di mamma che inizialmente fece finta di nulla, ma, quando il prelievo si fece più frequente, pretese una giustificazione. ***** approfittò del mio silenzio per incolpare me. Soffrii tanto quel giorno da provare forti conati di vomito; mai mi sarei aspettato da mio fratello, al quale mi legavano sentimenti che solo i gemelli possono avvertire, un’azione tanto cattiva!
Il temporale scoppiò, quando qualcuno informò mio padre della compagnia e degli ambienti che mio fratello frequentava. Adirato, come mai lo avevamo visto, entrando in casa, prima sfogò la sua bile su mia madre, colpevole a suo dire di non sapersi imporre ai figli, e poi su di me, perché non l’avevo avvertito.
“Papà, ti prego, gli dissi, ***** sta passando un momento difficile, mostragli comprensione e pian piano lo faremo ragionare”.
Le mie implorazioni non sortirono alcun effetto e l’ira, arginata per qualche tempo, proruppe in percosse e in: “ Ti faccio vedere chi comanda in questa casa!”. Si fermò solo alla vista del sangue e alle implorazioni della mamma che il pericolo presente le aveva fatto dimenticare il dolore provato alla triste notizia. Portai di peso mio fratello in camera in uno stato confusionale pauroso. Cercai di tamponargli il sangue che usciva copioso dal naso, proferendo parole di comprensione per i nostri genitori. Ci fu proibito di uscire di casa. Mio fratello il primo giorno dimostrò una certa calma e capacità di resistere, ma già il secondo giorno cominciò ad agitarsi. Aveva tra le mani un giornale sportivo che ogni tanto lasciava scivolare a terra alzandosi di scatto. Voleva uscire, ma la minaccia del babbo aveva ancora qualche effetto. La notte lo sentii agitarsi e piangere sommessamente. Soffrivo anch’io con lui ed avvertivo sulla mia stessa carne lo strazio di quella astinenza. Il terzo giorno mi implorò di fare qualcosa.
Mi disse: “*****, senti, papà a te non dirà di no. Io impazzisco se non avrò un po’ di quella polvere. Ti prometto che smetterò, ma così, tutto in una volta, come faccio? Vai da ….. – e mi disse un indirizzo – di’ che sei mio fratello, digli tutto,  fatti dare una dose, che poi passo io a pagargliela”.
Con la scusa della scuola riuscii ad avere il permesso di allontanarmi di casa, combattuto fra due sentimenti contrastanti, ma alla fine non volli più continuare quel calvario. A quell’indirizzo mi fu consegnato una bustina di polvere bianca con molta circospezione. Mio fratello quasi non mi diede il tempo di entrare in camera. Si gettò su quell’involucro come un cane impazzito per la fame e per un po’ lo sentii sniffare con voluttà. Nulla poterono più i divieti di mio padre e le lacrime di mia madre, con il suo vizio stava dimenticando tutti gli affetti. Cominciò a bucarsi e fu la fine. Viveva con un gruppo di inebetiti come lui nello scantinato abbandonato di un grosso stabile, in una sporcizia bestiale. In qualche momento di lucidità, sapendo il babbo era fuori per il lavoro, tornava a casa per spillare qualche soldo a mia madre e rinnovarle così un dolore che di lì a poco l’avrebbe portata alla tomba. Mio padre mi proibì di proferire in sua presenza anche il nome di mio fratello. Mia madre non resistette a lungo, deperiva ogni giorno di più. Incominciò a non alzarsi più dal letto e a me e al babbo, che pensierosi sostavamo al suo capezzale, raccomandò fino in ultimo di non abbandonare mio fratello e con questo nome sulle labbra si spense.
Notai due grosse lacrime sugli occhi di mio padre e ci ritrovammo abbracciati nel nostro duplice dolore.
Mi disse: “ Va’, ritrova tuo fratello, perché possa dare un ultimo saluto a sua madre”. Non mi fu difficile trovarlo, era al solito posto sotto l’effetto delle anfetamine e non riusciva a comprendere la mia agitazione, mentre i suoi compagni intorno accentuarono il loro sorriso da idiota.
“Fratello – insistevo – torna a casa. La mamma è morta”.
A questo punto provai un gran vuoto dentro e fui assalito da una gran voglia di piangere; le lacrime mi scesero copiose e misi in esse tutta la mia disperazione. La triste compagnia continuò a ridere, mentre mio fratello cominciò a farsi serio. Stava tornando in se stesso. Lo convinsi a seguirmi a casa e di fronte a quel letto di morte si disperò come un animale ferito. Dopo le esequie, ci volle la forza di mio padre per staccarlo da quel luogo, mentre urlava tutto il suo pentimento. Mio padre e mio fratello rimasero a lungo abbracciati, quasi in un estremo tentativo di recuperare il tempo perduto. Ma ormai era troppo tardi. Mio fratello restò qualche giorno con noi, ma una mattina lo cercai invano e capii che era tornato a siringarsi in modo più violento. Il suo degrado fisico e morale lo soffrivo sulla mia pelle e neppure la morte è riuscita a spezzare il legame che ci teneva uniti.
Una notte mi svegliai di soprassalto e cacciai un urlo disperato. Avvertii un forte dolore al petto ed un senso di soffocamento, mentre un bruciore insopportabile sembrava divorarmi l’intestino. Accorse mio padre, mi trovò riverso in una pozza di sangue che avevo rigurgitato.
Dissi: “È finita papà, tuo figlio è morto!”.
Lo ritrovarono ricurvo sotto un oleandro del lungomare, con al braccio inserita l’ultima siringa di disperazione.
Questi sono funerali che si fanno di nascosto, ma avrebbero meritato almeno l’ultima convalida dei seminatori di morte”.
Intanto eravamo giunti alla stazione di San Benedetto, ma, vinti dall’ emozione, saremmo rimasti lungamente assorti, se un batter concitato al finestrino della carrozza non avesse richiamato la nostra attenzione. Era il padre che cercava con ansia suo figlio. Li vidi salutarsi con un lungo abbraccio.
Così mi salutò: “Siamo rimasti noi due soli; ma domani trascorreremo una giornata con gli altri componenti la famiglia, presso due lapidi vicine lassù nel cimitero”.